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Vecchio 23-10-2023, 13:31   #26
Fulton Spulvrazòun
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Molto interessante! Complimenti per lo spirito di avventura e lo stile con cui condividi questa esperienza.

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La saggezza viene con l'età; talvolta l'età viene da sola.
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Vecchio 23-10-2023, 18:31   #27
gspeed
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Complimenti Massimo!!! Spirito, pianificazione, foto... bellissimo !!!!
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Ho un gran dottore, ogni volta che lo vedo mi dice di fare più moto...
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Vecchio 23-10-2023, 18:40   #28
Massimo
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GIORNO 02 – 15 AGOSTO 2023
Khogo Khan – Kharkhorin (116 km in moto)



Splende il sole sul nostro accampamento e ce la prendiamo comoda perché la giornata prevede poca strada.



Ripercorriamo a ritroso l’ultimo tratto della pista di ieri e poco dopo ne imbocchiamo un'altra in direzione sud-ovest che ci porterà in una zona acquitrinosa. O meglio la pista, sempre sabbiosa, avvicina una catena di basse dune che però si trovano oltre una specie di fiume che sembra un lago poco profondo.

Non sappiamo se dobbiamo attraversarlo (cosa che eviterei volentieri di fare) o se invece possiamo restare all’asciutto…In effetti potremmo, ma Alberto, quando vede l’acqua non capisce più una fava e dunque trova il modo di bagnarsi comunque.



Oltre lo specchio d’acqua le dune giocano con il loro riflesso. Sembrano quasi sospese, irraggiungibili, eppure sono lì ad attenderci, ma non è ancora giunto il momento.



Mentre siamo lì ad ammirare il panorama, arriva Gigetto, un giovane nomade di nemmeno dieci anni che, alla guida di una Shineray Mustang governa orgoglioso la sua mandria di bestiame. Qua si impara a cavalcare a tre anni, si prende la patente della moto a nove e alla fine si impara a guidare la macchina. La patente credo non serva, così come il casco.



In quel mentre arrivano quattro spagnoli di ritorno dal Gobi, con tanto di trofeo raccattato in mezzo alla sabbia, quella sabbia che ci attende tra 1000 km. Devo ammetterlo: il parabrezza cornuto l’ho invidiato parecchio.





Il luogo è davvero molto bello e ci lasciamo tentare dalla vanità di immortalarci in foto plastiche. Anche la Mustang, bella ignorante, fa la sua porca figura.





Riprendiamo la pista, sempre sabbiosa, fino a raggiungere l’asfalto, che seguiamo per poche centinaia di metri, giusto il tempo di dirigerci verso le dune, che ora ci si parano proprio davanti. In teoria l’accesso sarebbe interdetto da una sbarra, ma ovviamente ce ne freghiamo.

Le dune si estendono per una lunghezza di 80 km complessivi e sono chiamate Bayan Gobi o Elsen Tasarkhai. La parte in cui ci troviamo è nota come Khugnu Tarnyn Els, mentre la parte a sud della strada asfaltata è detta Mongol Els. Al di là della toponomastica, le dune sono piuttosto modeste, niente a che vedere con quelle che troveremo nel Gobi, ma sono comunque un ben parco giochi per aspiranti fenomeni.



Alberto se la cava benone, mentre io mi impianto subito. Comunque non c’è pericolo di farsi male con le nostre ridicole motorette e, visto che abbiamo tempo, ci godiamo una mezz’ora di acrobazie.







In giro non si vede nessuno, a parte un’aquila (una delle tante che incontreremo) che dall’alto pesa la mia inettitudine dakariana.



Bene la ricreazione è finita. E’ ora di rimettersi in marcia. Da qui alla nostra destinazione ci attende, in teoria solo asfalto.

Dico in teoria perché dopo pochi chilometri veniamo attratti da un gruppo di stupa senza nome che giacciono appollaiati su una collina. E siccome, per raggiungerli, bisogna imboccare una pista che si arrampica sul cocuzzolo, quasi senza nemmeno accorgercene, ci ritroviamo di nuovo con le ruote sulla terra.

Tira vento, il cielo è terso e la vista spazia a perdita d’occhio. A proposito di vento, Alberto ha un attacco di meteorismo e si mette a fare ioga.



Mentre io mi allontano prudenzialmente.



70 km ci separano da Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo, oggi un paesotto di meno di 10.000 abitanti. Da qui in avanti sarà tutto comodo asfalto.

La strada fila diritta tagliando le modeste colline spelacchiate e noi ci sentiamo liberi in tutto questo spazio. La Mongolia offre spazi davvero sconfinati e asfalto talvolta in eccellenti condizioni, come in questo tratto finale di strada.





Ci promettiamo di arrivare a destinazione senza ulteriori divagazioni, ma ancora una volta cediamo alla tentazione delle steppe incontaminate che si perdono a vista d’occhio ai margini del nastro asfaltato. Basta poco, una pista, poco più di una linea, e ci ritroviamo di nuovo sulla terra, o meglio sull’erba.

E così riparte la giostra: guidiamo a caso, disegnando cerchi e forme indefinite su queste praterie. Ci incrociamo, divaghiamo, insomma ci sentiamo straordinariamente bene.



















Siamo felici, veramente felici… e io un po’ anche ebete.



Adesso però basta. Diritti fino a Kharkhorin. Facciamo le persone serie.

Arriviamo a metà pomeriggio e subito ci mettiamo alla ricerca di un campo tendato per sistemarci. I campi sono tutti dislocati ad ovest della città nei pressi di una vasta prateria bagnata dal fiume Orkhon, il più lungo di tutta la Mongolia. Al termine dei suoi 1124 km, si immette nel fiume Selenge, che a sua volta va a finire nel Lago Bajkal. La Valle dell’Orkhon (o Orhon) è inclusa nella lista dei patrimoni dell'umanità.

I campi gher sono a caccia di clienti, perché a quest’ora sono vuoti. Eppure ci sparano cifre assurde che seccamente rifiutiamo. Quindi proviamo nell’albergo più lussuoso della città, ma anche lì le richieste sono improponibili.

Ma come è possibile, dato che in Mongolia, da quel che abbiamo finora sperimentato, la vita a Ulan Bator costa la metà rispetto all’Italia e, nel resto del paese, un terzo o anche meno?

Abbiamo l’impressione che vogliano provare… a farci fessi, ma non ci riusciranno. A forza di cercare capitiamo infatti da Gaya's Guest House: un recinto con un micro campetto tendato e fabbricato con camere, gestito da una mongola baffuta peraltro molto gentile. Il prezzo è corretto e ci sistemiamo nella guest house che costa uguale alla tenda.





Intendiamoci, la camera non è poi un gran che, piuttosto minimal a dirla tutta, ma per noi va più che bene. E poi la colazione è compresa. Solo i cessi hanno le porte stile saloon, ma le docce hanno l’acqua calda. O meglio avranno l’acqua calda, ma solo dopo le 18:00.

Vi ricordate il temporale che ieri abbiamo mancato per un pelo? Ebbene, quel temporale, qui ha divelto un traliccio dell’alta tensione e tutto il paese, compresi i campi gher esosi e l’hotel super caro, sono senza elettricità. Zero a zero palla al centro per tutti, belli e brutti.

Alle diciotto la mitica Gaya come promesso attacca il generatore e anche stasera la doccia è assicurata.

Neanche a farlo apposta, bello profumato, trovo un bel gruppetto di casalinghe tirate a festa nel cortile, pronte a farsi immortalare nella foto ricordo, di quella che probabilmente è una rimpatriata delle medie. Mi aggrego al fotografo ufficiale e scrocco una foto anch’io.



L’attrattiva principale di Kharkhorin, l’antica Karakorum (capitale dell’impero mongolo per appena trent’anni) è un antico monastero buddista: Erdene Zuu (che significa “cento tesori”) è il suo nome.

Si tratta di un complesso di forma quadrata con un perimetro di 1200 metri, costruito nel ‘500, con le pietre dell’antica capitale di 300 anni più vecchia. La cinta muraria è caratterizzata dalla presenza di 108 stupa (il numero non è sparato caso, perché corrisponde ai grani del rosario buddista). Si tratta di una struttura immensa, tant’è che, ai tempi d’oro, ospitava oltre 60 templi e 1000 monaci.

A dare una ridimensionata ci hanno pensato i russi, che, nel 1939, devastarono tutto e sterminarono i monaci. Tutto ciò senza alcun comprensibile (per noi) motivo. La pensata fu di Stalin ovviamente. Ora comunque è un museo a cielo aperto, anch’esso patrimonio UNESCO.

Entriamo. Dentro è pressoché vuoto. Lungo le mura vediamo strane figure che simulano un combattimento e donne vestite a festa. Magari c’è la sagra della polenta taragna…





Qualche tempio è rimasto in piedi e, in punta di piedi ci intruffoliamo all’interno. Dentro non si può fotografare, ma è il divieto, si sa, è un’istigazione a delinquere.







I templi sono frequentati anche da autoctoni in gita della domenica. Alcuni poi li ritroveremo dentro un cortile dove si sta celebrando una cerimonia.





La tizia qua in centro alla foto qui sotto, miss condominio, non sa ancora cosa le aspetta.



E cioè una bella palpata di chiappe.



Apperò sti mongoli.



In mezzo all’immenso recinto c’è un grande stupa e, sparsi in giro, dei pippolotti colorati che secondo me, lasciano perplessi anche i mongoli… almeno questi due.





Fuori dal tempio, anzi, proprio davanti, stanno finendo di costruire una gigantesca piazza con negozi nuovi di stecca. Dovrebbe servire a rilanciare l’indotto turistico del luogo, ma manca la strategia commerciale, perché i negozietti appena aperti, vendono tutti le stesse paccottaglie cinesi. Sono lo stesso negozio replicato ad oltranza. Diversificare la merce sarebbe una soluzione semplice… ma con calma ci arriveranno.

E’ quasi l’ora del tramonto. Saliamo in moto e ci arrampichiamo per una pista scassata su per una collina, dove sorge il Monumento per gli Stati Mongoli, un’oscenità celebrativa costruita nel 2004.





Fin quassù non si viene per ammirare l’obbrobrio, ma il panorama sulla valle dell’Orkhon, che al tramonto è davvero notevole. Il fiume sembra quasi d’argento e le colline si accendono di verde.









E, con questa luce, anche le nostre motorette sembrano scintillanti.





E Kharkhorin, dall’alto, ci appare per quel che è: una distesa di catapecchie di legno e poco più.



In un attimo è buio e ci mettiamo alla ricerca di un ristorante. Sulla carta ce ne sarebbero molti, ma sono tutti vuoti o chiusi. Ci infiliamo dentro a quello che ci sembra meno peggiore degli altri: il nome davvero rimane un mistero e manco è segnalato su google maps.

Ci portano un tagliere lungo un metro con sopra carni varie e verdure. Posto laido ma tutto buono ‘sto giro.

Ho dimenticato di dirvi che dal pomeriggio abbiamo sempre girato in città e dintorni senza casco e senza documenti, giusto per stare leggeri. Quando ho chiesto un’informazione ad un poliziotto, questo non ha fatto una piega. Tutto normale quindi.

Normale un par di palle, perché all’uscita dal ristorante, in piena notte, lungo la strada per tornare alla guest house, finiamo in pasto ad un carosello di lampeggianti blu: un posto di blocco della polizia con tutti i crismi e in grande stile. Ovviamente parlano solo mongolo, ma intuiamo che vogliono patente (che non abbiamo), passaporto (che non abbiamo) e carta di circolazione (che non abbiamo). E ci fanno segno che serve, o meglio servirebbe, il casco.

Ovviamente non gli diamo niente di quel che chiedono, semplicemente perché non ce l’abbiamo. Con google translate parte quindi una serie di botte e risposte, del tipo “serve il casco””ma come, prima un vostro collega ci aveva detto che è lo stesso”“servono i documenti”“li abbiamo in albergo perché il noleggiatore ci ha detto che andava bene così”.

Eppure la gente del posto poco prima ci faceva cenno che non avevamo il casco.

Alla fine i pulotti si sono dovuti arrendere all’evidenza e tutto è finito a tarallucci e vino con un “benvenuti in Mongolia e buon viaggio”. Tanto casino per niente.

Sarei quasi tentato di riprovarci al prossimo posto di blocco perché è stato troppo divertente.

Incomincia a piovigginare, domani mettono brutto. Staremo a vedere.

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Massimo Adami
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Vecchio 23-10-2023, 23:47   #29
cacciatore
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Complimenti, bel viaggio e simpatico report
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Vecchio 24-10-2023, 18:15   #30
Massimo
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GIORNO 03 – 16 AGOSTO 2023
Kharkhorin - Orkhon Valley (139 km in moto)



Ha piovuto tutta la notte e piove tuttora. E pure tanto. E’ impossibile mettersi in marcia, così decidiamo di aspettare. Alle 10:00 la situazione non cambia, così proviamo cautamente a partire, perché, diversamente, non riusciremmo ad arrivare in tempo.

L’intenzione originaria era di percorrere la sinistra idrografica del fiume Orkhon, in modo da poter visitare, più o meno a metà strada, il monastero di Tövhön Hiid, che se ne sta appollaiato sulle montagne incastonato sotto una parete rocciosa. La pista, tuttavia, prevede alcuni guadi e tratti in prossimità del greto del fiume: francamento non sappiamo se, con tutta questa pioggia, siano praticabili.

Pertanto accantoniamo prudenzialmente l’idea, per cui il monastero resta dov’è e ci accontentiamo delle foto che circolano in rete, tipo questa.



Col senno del poi, abbiamo fatto bene, data la quantità di fango che abbiamo incontrato su una pista alternativa più facile, che è poi quella che seguono quasi tutti.

Da Kharkhorin ci immettiamo sulla strada asfaltata che, con un ampio giro, dapprima in direzione sud-est e poi decisamente sud ci porterà fino al villaggio di Hužirt. Piove davvero forte e tira vento. Fa freddo. Il traffico è scarso ma le buche sulla strada piene d’acqua sono un bel problema, perché non sono sempre evitabili e non si capisce quanto siano profonde.

A Hužirt smette fortunatamente di piovere; si tratta più che altro di una tregua, perché di lì a poco riprenderà anche se meno intensamente. Ci ripariamo sotto un distributore che ha finito la benzina, mentre cerchiamo di capire dove attacca la pista che abbiamo deciso di percorrere.

La cosa non è affatto semplice, perché stanno costruendo la strada e il tracciato è chiuso. Iniziano i tentativi: guadiamo un fiume e cerchiamo di risalire la massicciata della strada in costruzione, ma siamo costretti a desistere; proviamo allora da un’altra parte, ma nemmeno da qui si passa; terzo tentativo, altro guado, ma niente da fare.

Alla fine entriamo in paese e districandoci per le strade sterrate in mezzo alle baracche di legno, e dopo una buona mezz’ora di tentativi, troviamo il bandolo della matassa intercettando la pista più avanti. Ho detto pista, perché il sedime della nuova strada è ancora intransitabile.

Siamo nella valle dell’Orkhon che è bellissima e verdissima nonostante il tempo inclemente. Davanti a noi un pastore nomade in sella alla sua Shineray Mustang corre spensierato su terreno libero. Evidentemente sa qual’è il terreno migliore su cui guidare. Lo seguiamo sereni e baldanzosi, fino a quando ci accorgiamo che sta andando in una direzione diversa dalla nostra



Peccato, la pacchia è finita. Riprendiamo la pista che alterna tratti ghiaiosi a lunghe e profonde pozze di fango, quello denso e traditore. In una di queste Alberto perde il controllo e si trova per terra, fortunatamente senza conseguenze. La moto tuttavia non gira più bene, è un po’ spompata, ma non capiamo la causa.



Più avanti una mandria di cavalli, governata da un pastore a cavallo, ci attraversa la strada. Decido di chiedere aiuto. Lui gentilmente si ferma, mi affida l’animale porgendomi le redini e si mette a controllare la moto di Alberto. Una regolazione di qua e una di là e la moto torna perfetta: era la leva dell’aria che cadendo si era inceppata.

Restituisco il cavallo, che comunque non aveva nessuna intenzione di farsi tenere da me, e ripartiamo.

In lontananza vediamo due pullman turistici. Sì, avete capito bene due pullman su queste marogne. Avanzano lentissimamente. Sono praticamente quasi sempre fermi e quando si muovono dondolano da ogni parte, fino quasi a cappottarsi a causa del terreno sconnesso.

Arriviamo ad un guado, non molto profondo ma incassato nel terreno. Cerchiamo il punto migliore dove passare proprio nel momento in cui arrivano i pullman, che nella risalita cominciano a perdere aderenza e mettersi di traverso. Francamente non capisco cosa ci facciano in mezzo a tutto questo fango.

Più avanti la pista si alza parecchio rispetto al greto del fiume Orkhon. Qui c’è un punto panoramico dove si fermano tutti. Il colpo d’occhio ci piace. Ora pioviggina soltanto.





La pista da qui in avanti è piuttosto sconnessa e piena di fango, così decidiamo di seguire altre piste più asciutte che tagliano le colline più a monte. Tutto bene, se non fosse che sono veramente inclinate e l’aderenza non è il massimo. Ma almeno evitiamo tratti più malmessi (e parecchio lunghi) dove si fatica a stare diritti per i solchi di melma profonda scavati dai camion: insomma è tutta una pantanaia di notevoli proporzioni e le motorette hanno ormai accumulato una tale crosta che fatichiamo a riconoscerne il colore.

Tutto questo ben di dio, finisce nel villaggio di Bajan-Ôndôr, altro agglomerato di casette di legno in mezzo al nulla. Riprende l’asfalto, ma è solo un’illusione dato che finisce dopo qualche centinaio di metri.

Dobbiamo superare il fiume Orkhon su uno dei rari ponti degni di questo nome. Inizia un maledetto toulé ondulé in direzione nord su terreno duro che ci accompagnerà per una cinquantina di chilometri buoni. Arriviamo quindi nei pressi di un altro ponte, quello che avremo dovuto superare se avessimo percorso la traccia che ci eravamo prefissati. Ora ci dirigiamo decisamente in direzione ovest sempre sulla destra orografica del fiume. La pista diventa a fondo terroso compatto e si prosegue più agevolmente. Ci avviciniamo al fiume e incontriamo cavalli liberi.





Optiamo per la guida libera sull’erba, senza alcuna presenza umana nei paraggi. Il cielo è sempre coperto e carico d’acqua, ma è la Mongolia più pura che potessimo immaginare.











Accolti da un paesaggio bellissimo arriviamo a Ulaan Tsutgalan Waterfall, una scenografica cascata. Qui il fiume Orkhon ha scavato un anfiteatro roccioso da cui precipita una cascata di una ventina di metri. Si tratta di una delle mete più pubblicizzate di tutta la Mongolia e c’è addirittura una zip-line gestita da quattro scappati di casa, che però non proviamo.







C’è da dire che poco prima di giungere alla cascata è possibile, per un sentierino roccioso ma facile, scendere a piedi fino al greto del fiume ed arrivare alla base del vorticoso salto.

Uno scoiattolo ciccione (o una bestia simile) esce dalla sua tana a guardare che succede. Scommetto che qualche aquila l’ha già adocchiato…



Esce un po’ di sole. Ormai siamo in dirittura d’arrivo e ce la prendiamo comoda.





La pista volge ora in direzione sud sempre tra i prati e poco dopo piega in direzione est. Il cielo torna a scurirsi. Arriviamo al campo che avevamo scelto: Khurhree Tour Camp. Ben tenuto con una quindicina di tende, qualche casetta e un fabbricato nuovo come ristorante. I bagni sono pulitissimi e l’acqua è bollente. Le tre figlie della padrona sono sempre con la ramazza in mano e tengono tutto lindo e profumato.



Parcheggiamo le moto a fianco di un Uaz, un monumento a quattro ruote motrici da queste parti. Dove noi viaggiamo a 30 km/h gli Uaz filano ad oltre 90 km/h incuranti di buche, dossi, sabbia e fango.



Siamo a 1800 metri di altitudine e fa freschetto. Ci accendono la stufa che, in men che non si dica, alza la temperatura a livelli insopportabili. Peccato che la legna d’importazione cinese con cui è alimentata (la Mongolia praticamente non ha alberi) abbia una durata di pochi minuti… e così ci ritroviamo al freddo.

Ricarichiamo e saliamo a 35 gradi. Poi scendiamo a 10. E così via.

Alberto è stato nominato fuochista ufficiale, mentre io stendo la biancheria, che si asciuga in un batti baleno.





Siamo costretti a tenere la porta spalancata per stemperare la botta di calore, mentre nel cielo le nuvole lasciano via via spazio al sereno.




Si accendono i colori del tramonto e compare per un attimo un sottile arcobaleno. Ci troviamo in una piana erbosa circondati dalle montagne. Ci sentiamo al sicuro, contenti per la bella giornata trascorsa. Questi spazi così vasti non disorientano, ma accolgono.







Arriva l’ora di cena, che non sarà per nulla memorabile: ci servono una specie di piatto con una montagna di simil-fettuccine con verdura e carne secca stracotta. Per dargli sapore dobbiamo innondarlo di salse dai colori e sapori improbabili, che ci servono in flaconi di plastica tipo quelli del bagnoschiuma. Sopperiamo con arachidi in scatola e ci infiliamo sotto le coperte.

Mi accorgo solo ora di essermi ustionato la faccia. Come è possibile visto che ha piovuto tutto il giorno? Vabbè troveremo una soluzione…





Domani ci sarà bel tempo e non vediamo l’ora di rimetterci in marcia. La strada verso il Gobi è ancora lunga.

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Massimo Adami
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Massimo non è in linea   Rispondi quotando
Vecchio 24-10-2023, 19:08   #31
Il Giova
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Ricordo perfettamente quando in transiberiana stanno per arrivare ad Ulan Bator ed è piovuto e beccano un tratto di pista infangato e cadono ripetutamente e le imprecazioni di Carlo Mascarin… bel report e belle foto complimenti ma troppa fatica per i miei gusti
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Giò Katia Ale&Francy
Il Giova non è in linea   Rispondi quotando
Vecchio 25-10-2023, 18:29   #32
Massimo
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GIORNO 04 – 17 AGOSTO 2023
Orkhon Valley - Arvaikheer (148 km in moto)




Oggi splende il sole e siamo pronti a metterci subito in marcia carichi a molla.

L’idea originaria era quella di percorrere una pista alternativa (che so essere stata affrontata da qualche gruppo organizzato italiano), ma veniamo dissuasi dal gestore del campo e da un manipolo di autisti, che ce la descrivono come difficile e di alta montagna. Ci fanno capire che non è proprio il caso nemmeno di provare, tant’è che loro non ci pensano neppure lontanamente ad andarci con gli Uaz.

Hanno reso perfettamente il concetto…

La molla si allenta e, tronfi di quel minimo senso di giudizio che ci è rimasto, a orecchie basse, decidiamo di fare il percorso classico, anche se prevede di ritornare in gran parte sui nostri passi, ossia di ripercorrere praticamente quasi tutto il tracciato di ieri. Non sarà ovviamente così, ma ci arrivo tra un attimo.

Partiamo, dicevo, ma non prima di essere salutati dalle tre figlie del gestore del campo, che ci hanno premurosamente accudito durante il nostro soggiorno. Quella che comanda tutto è ovviamente la piccoletta in mezzo.



Prendiamo quindi la pista principale, che in direzione est dovrebbe riportarci al villaggio di Bajan-Ôndôr, quello dove ieri abbiamo attraversato il ponte sul fiume Orkhon. Quella di oggi è tuttavia una pista diversa rispetto a quella di ieri, almeno per ora.



La perdiamo quasi subito e ci troviamo incasinati in un labirinto di rocce, collinette, avvallamenti e boschetti. E’ tutto un tentativo dietro l’altro per cercare i passaggi meno ostici. In realtà ci stiamo divertendo assai, anche se perdiamo una montagna di tempo per fare una manciata di chilometri soltanto.

Tutto ‘sto baito è dovuto alla necessità di attraversare un fiume, che non ha né ponti né guadi banali come piacerebbero a me. Alla fine, a forza di cercare, troviamo quello che, secondo noi, è il punto più facile per attraversare. L’acqua è bassa ma le pietre sotto sono grosse come meloni.



L’incognita è superata. Ora ci attende una pista più decifrabile, anche se bella impantanata.

Fango traditore! Alberto scivola di nuovo e stavolta si fa male ad una caviglia e squarcia pure lo stivale. Calma e gesso: poteva andare peggio. Con cautela ci rimettiamo in marcia.



Il percorso è comunque bellissimo, un continuo saliscendi tra le anse del fiume. Più avanti superiamo altri due guadi e, infine, entriamo nel villaggio di Bajan-Ôndôr.

Facciamo subito spesa all’Esselunga esibendo orgogliosi la tessera dei punti fragola, che vale anche qui.



Il traffico è scarsino, ma ogni tanto passa un mongolo motorizzato avvolto nel suo pastrano tipico.



Facciamo benzina all’unico distributore e imbocchiamo la stessa pista di ieri, che ripercorriamo a ritroso, tra il solito fango, per una trentina di chilometri scarsi.

Circa a metà strada ci imbattiamo, quasi per caso, in un sito risalente all’età del bronzo, segnalato da un tabellone scritto solo in mongolo.



Si tratta di 40 antiche tombe quadrate con raffigurazioni varie. Quattro sassi direte voi, e lo dico anch’io, però antichi per davvero, sperduti in questo posto dimenticato da dio. Il luogo si chiama Temeen Chuluu e manco è segnato su google maps.



Come anticipato all’inizio l’idea, seppur saggia, di ripercorre tutta la prima parte della pista di ieri ci rosica parecchio. E infatti… decidiamo di essere creativi.

Giusto davanti a noi si apre, per puro caso, sulla destra in direzione sud, una valletta secondaria, e trasversale rispetto a quella principale del fiume Orkhon, che si arrampica in mezzo al niente.

La tentazione è forte e ci lusinga: bene, infiliamoci in questa valletta e vediamo che succede.

La pista inizia a salire tra i prati, senza tregua. Sale, sale e sale ancora. Non abbiamo idea fino a quando, ma si prosegue benone perché il toulé ondulé tanto odiato, fortunatamente, scarseggia.

Qua e là c’è qualche rarissima tenda con vacche al pascolo. La densità di popolazione qui è sotto lo zero. Il paesaggio offre scenari sempre diversi, in evoluzione diciamo, tra un guado e l’altro.



Porca malora, quasi senza volerlo abbiamo trovato un posto davvero bellissimo… e si sa, i posti belli talvolta sono i più imbucati.

Ogni tanto ci fermiamo…a guardare il niente, il che, se ci pensate, è una grande fortuna, nemmeno immaginabile a casa nostra. Qua invece è tutto grande, tanto, esagerato, infinito.



Ad un certo punto si apre una valle immensa perfettamente pianeggiante, dove razzolano greggi di pecore obese. Apriamo il gas e ci sfoghiamo fino allo sfinimento. Beh… apriamo nei limiti di quel che si può con i nostri bolidi cinesi.



Non abbiamo la benché minima idea di come si chiami questo posto, ma ci importa il giusto, anzi zero. E’ bellissimo e questo ci basta e avanza. Alberto si ferma anche lui a contemplare la splendida scenografia, ma la caviglia non è per nulla a posto. E’ forte e determinato, stringe i denti e non si lamenta.



Più avanti siamo costretti a lasciare la comoda pista che pigramente stiamo seguendo perché, all’improvviso, entra in un recinto di cui non vediamo la fine. La cosa è stranissima perché qua di prati ce n’è per tutti. Poco dopo un guado insidioso sul torrente incazzato ci disorienta. Non riusciamo a trovare il passaggio migliore. Come per magia arriva però un mongolo motorizzato in senso opposto, il quale, manco a dirlo, conosce perfettamente il punto debole del fiume e passa a manetta umiliandoci. Non ci resta che imitarlo ovviamente. E anche questa è fatta. A culo, ma è fatta.

La pista riprende a salire. L’ambiente si fa ancora più selvaggio. Altri guadi da superare. Poi ci accoglie un’altra prateria perfettamente a livello. Una mandria di cavalli staziona pigramente proprio dove dobbiamo passare noi.



Con tutto ‘sto spazio proprio lì dovevano mettersi? E loro potrebbero dire: con tutto questo spazio proprio di qua devi passare? Si, proprio di qua, perché sono strunz.

Apro il gas e mi ci filo in mezzo, solo per il piacere di vederli schizzare in tutte le direzioni. Gioco innocente per bambino deficiente, ma solo per ammazzare la monotonia della giornata.





Gli equini comunque non fanno una piega e subito dopo tornano a parcheggiarsi in mezzo alla strada. In realtà, qui si respira davvero il senso di libertà assoluta: si può passare dove si vuole, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo spazio, impressionante anche per menti predisposte, quasi stordisce, lascia smarriti e, allo stesso tempo, eccitati. Bisognerebbe provarlo perché a parole si fatica a rendere il concetto. E’ tutto così vuoto, ma pieno, immenso, straordinariamente immenso.





Sono uno stordito. Lo so e si vede. Ma portate pazienza, dai.



L’ultima salita ci porterà su una specie di passo dove sta, buttala lì, una discarica di pietre e rifiuti. Almeno a prima vista. In realtà è una specie di monumento ruspante di ex voto, dove quei pochi che passano da queste parti, lasciano un oggetto per loro significativo.

Buttati lì in mezzo ai sassi, ci sono una stampella, una chiave inglese, una bottiglia di birra e altre chincaglierie… forse per ringraziare non so chi di una guarigione, o di una riparazione ben riuscita, o ancora per essere usciti dall’alcolismo. Non lo sapremo mai.

Io, che non ho niente da lasciare, salgo sulla discarica e guardo l’orizzonte… in realtà non è vero, ma non posso scriverlo.



D’ora in avanti sarà tutta discesa che ci porterà infine sull’asfalto, tra l’altro in eccellenti condizioni, oserei dire quasi nuovo di pacca. Ad avere potenza si potrebbe correre senza ritegno, invece ci dobbiamo accontentare dei 50 all’ora, ma non per nostra inettitudine.

Arriviamo dunque trotterellanti alla periferia di Arvaikheer, una cittadina di circa 20.000 abitanti e capoluogo di regione. E’ il primo centro abitato di una certa importanza che incontriamo dopo la capitale. Poco prima del ponte sul fiume Ongi (che ci creerà non pochi problemi domani), ci sta il casello per il pagamento del pedaggio.

Qui i caselli sono fatti a mo’ di arco di trionfo, con tanto di timpano e pilastri dorici. Le moto pagano solo a sentimento del casellante, che qui però è una casellante e non ci fa pagare. I caselli sono quasi sempre vicino ad una stazione di polizia.

Nel gabbiotto, oltre alla bella casellante, ci sta un poliziotto che evidentemente cercava di tacchinarsela. E per fare lo splendido, appena ci vede arrivare, si precipita fuori, tutto tronfio, impugnando il manganello luminoso che da queste parti sostituisce la classica paletta.

Se vuoi fare il fenomeno, ragazzo mio, devi anche saperti spiegare e farti capire, soprattutto se fermi due non-mongoli. Parte il solito cinema: vuole la carta di circolazione, vuole la patente, vuole il passaporto, vuole la tessera dei punti fragola, vuole… non lo sa nemmeno lui, e soprattutto non lo sappiamo nemmeno noi dato che emette solo grugniti gutturali incomprensibili.

Io non mi scompongo, manco spengo il motore, mentre Alberto si sforza di dargli qualcosa… anche gli scontrini del supermercato. Alla fine, presi da pietà, gli diamo le nostre patenti internazionali. Naturalmente non le ha mai viste in vita sua, né - immagino - nessuno gli ha mai spiegato che gli occidentali solo quella hanno in forza dei trattati internazionali e bla bla bla.

La guarda perplesso. Per forza l’ha aperta capovolta e al contrario. Non capisce cosa sia. Torna nel gabbiotto e prende la sua patente per farci capire che, secondo lui, dovremmo averne una uguale anche noi. Mi scappa da ridere. Alla fine gli prendo dalle mani le nostre patenti e gliele apro alla pagina giusta, quella dove può leggere anche lui, sebbene lo abbiano evidentemente bocciato in prima asilo.

Si arrende e, con la coda tra le gambe, ci lascia andare. E vorrei ben dire: se sei tordo cambia mestiere… e lascia perdere la casellante, la quale, se ha visto quanto sei torsolo, non te la darà mai.

Arriviamo in città e finiamo diritti nel cortile del faraonico Arvaikheer Palace Hotel, un mille mila stelle nel mondo della fantascienza. Da fuori sembra anche decente e il prezzo, se non ricordo male meno di 27 euro per camera con colazione, decisamente a buon mercato. Dentro la musica cambia e le camere sono quel che sono, con acqua calda solo dalle 18:00.

Abbiamo però il bagno in camera e anche il tempo di cambiare i soldi… se vogliamo mangiare questa sera.

Operazione quest’ultima piuttosto laboriosa, ma soprattutto lunga. Alla fine, dopo quasi un’ora, esco con un bel pacchettone di carta mongola, che vale poco più di quella igienica.

Ho anche il tempo di passare in farmacia a comperare crema dopo sole e protezione solare, dato che sono veramente messo male in faccia. Scopro che i medicinali costano una fortuna: per due creme spendo quattro volte il prezzo della camera. E capisco anche perché i farmaci qui li vendono sfusi a richiesta: del tipo tre aspirine o due tachipirine. Le prendono dalle scatole e le vendono al dettaglio, diciamo. Alberto, da persona seria e parsimoniosa, mi sfotterà per tutta la vita, esibendomi lo scontrino della farmacia con cui avremmo potuto comperare mezzo albergo.

A proposito di albergo, pensavamo a torto che fosse il migliore, perché poco distante vicino ad una clinica privata tutta illuminata a festa, ce ne sta un altro messo decisamente meglio, almeno da fuori. Ma ormai è fatta.

Quest’ultimo albergo, il Bogd Hotel, ha però il miglior ristorante della città, che si chiama pure lui Bogd, e noi naturalmente ci infiliamo dentro senza troppi complimenti.

Come spesso accade i menu espongono molto più di quel che in effetti è realmente disponibile. Guardiamo le foto, ma poi dobbiamo fare i conti con quel che passa il convento: alla fine mi oriento verso una pizza.





Ci vuole coraggio, ma io ne ho da vendere, anche se lì sul momento, come una premonizione, sento puzza di rogne… e infatti le rogne (intestinali) le avrò l’indomani.

Dopo cena torniamo in albergo, dove c’è un gran casino. Sono arrivati degli arabi, vestiti da arabi, con un codazzo di lussuosi jeepponi, servitori che accudiscono uccelli in gabbia e metri cubi di bagagli. Nella hall occupano tutto lo spazio. Ingombranti. Troppo. Saliamo per le scale e ci infiliamo nei nostri confortevoli letti.

Domani entriamo nel Gobi.

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Massimo Adami
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Vecchio 26-10-2023, 19:37   #33
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GIORNO 05 – 18 AGOSTO 2023
Arvaikheer - Ongi (225 km in moto)




Dopo una magra colazione, prepariamo le moto. Fuori dall’hotel c’è un gran traffico di gente. Tutti in partenza verso il Gobi.

Il nostro itinerario prevede di seguire il corso del fiume Ongi sulla sua destra orografica, ossia dalla parte in cui ci troviamo e si trova la cittadina di Arvaikheer. Non vorremo fare il giro largo, perché abbiamo intuito una pista che, dalle carte, ci consentirebbe di attraversare il fiume con un itinerario più breve per arrivare a Saikan-Ovoo, un minuscolo villaggio ad una manciata di chilometri dalla meta.

In realtà, google maps ci dà un ulteriore itinerario, più diretto e breve, che sta anch’esso sulla destra orografica del fiume: l’incognita è data da un ponte che sembra ancora in costruzione. Se una volta arrivati là non si passasse, ci toccherebbe tornare indietro per 130 km e la tappa sarebbe andata a farsi benedire. Scartiamo dunque l’opzione.

Cerco, dunque, informazioni tra la gente in partenza sulla possibilità di guadare il fiume sulla scorciatoia che ci siamo in messi in mente di provare. Un ciccio bomba mongolo in canottiera, ci rassicura: il fiume è alto 20 cm, l’acqua è calma e si tratterà di una decina di metri al massimo. Mah… la cosa mi pare strana perché giusto ieri abbiamo attraversato lo stesso fiume (sul ponte stradale) per arrivare in città e ci pareva bello grosso e incazzato. Sarà…

Usciamo in direzione sud e prendiamo subito una pista di toule ondulé che scorre ben definita in direzione sud-est su terreno arido con cespugli bassi. Dopo 20 km, in prossimità del fiume improvvisamente scompare e non la vediamo nemmeno oltre l’altra sponda. Qui è tutta ghiaia grossa. Iniziamo a cercare un punto dove passare, ma è una battaglia persa. Il fiume è largo, veramente profondo e c’è molta corrente. Impossibile. Vorrei appendere il ciccio bomba alla sua canottiera!

Tocca tornare indietro: 40 km e due ore di tempo persi. E’ quasi mezzogiorno e siamo ancora al punto di partenza. Oggi ci tocca pedalare.

Per rendere meglio l’idea, a quanti decidessero di affrontare questa tappa, la mappa qui sotto riporta: a) in rosso il tentativo fallito (la X segna il punto in cui nella fantascienza si potrebbe guadare, ma la cosa è oggettivamente impraticabile) b) in blu la traccia di google maps, che consiglio perché il ponte, appena ultimato, e dunque nuovo di stecca, esiste (siamo andati apposta a controllare all’arrivo); c) in giallo la traccia che fanno tutti e che abbiamo fatto anche noi, che però è parecchio più lunga.



Bene. Torniamo a Arvaiheer, facciamo benzina e ripercorriamo su asfalto la strada di ieri. Superiamo il fiume Ongi e poco dopo prendiamo una pista ben visibile sulla destra, che serpeggia subito tra le colline pelate. La città scompare all’orizzonte e ci rendiamo subito conto che qua l’ambiente è desertico: attraversiamo qualche torrente in secca, superiamo modeste salite e discese a ripetizione. Zero presenza umana e animale. Manco i cammelli ci sono oggi.

Ad un certo punto, dopo chilometri e chilometri nella desolazione più totale, arriviamo nei pressi di quella che un tempo forse era una miniera o una centrale di non so che cosa. Il luogo non è segnato su nessuna mappa. Un cane esce dai ruderi e ci insegue. Il posto è spettrale.





Poco più avanti dobbiamo scegliere la direzione da prendere. Non capiamo quale sia la pista migliore per portarci in direzione del fiume Ongi, da cui ci siamo allontanati parecchio. Poco dopo troviamo una stalla, l’unica, da dove escono degli strani ceffi luridi all’inverosimile. Non riesco a spiegarmi. Alla fine esce pure una donna, zozza pure lei, che fortunatamente mi indica a gesti la direzione.

Secondo me è giusta, secondo Alberto sbagliata. Proviamo a seguirla con qualche dubbio, dato che non è proprio così evidente. L’ambiente si fa sempre più inculato. In pratica è tutto completamente piatto e non si vede nulla oltre l’orizzonte. Da qualunque parte ci giriamo, è tutto uguale.





Comincia a farsi strada una certa ansia. Cosa succede se uno dei sue cade o se si rompe la moto? La distanza per raggiugere un centro abitato per chiedere aiuto è davvero tanta (almeno 80 km) e servirebbero ore per andare e tornare. Realizziamo che in posti come questo, essere in due soltanto, non è proprio il massimo. E non vediamo l’ora di toglierci da questa situazione. Ma la strada è ancora lunga.

Alberto è come inebetito.



Più avanti il senso di isolamento si amplifica ulteriormente perché il paesaggio non cambia. In lontananza ci illudiamo di vedere laghi, fiumi e montagne, ma sono solo miraggi provocati dall’aria calda in prossimità del terreno.

Manca qualsiasi riferimento. Il sole è alto nel cielo e fa caldo. Non abbiamo scelta: dobbiamo per forza andare avanti, cercando di rimanere sulla pista giusta. Che posto surreale!

Quando ci si trova in luoghi così, dove il paesaggio resta tutto uguale, dove non si resta attratti da qualcosa in particolare, ognuno pensa in un certo senso ai fatti suoi. La mente si libera e i pensieri corrono dove vogliono, un po’ come le nostre ruote. In realtà, se ci pensate, ci si stacca proprio dalla realtà, quella quotidiana. E’ una sensazione strana da spiegare… è come un reset.













Troviamo un unico bivio, peraltro segnalato. Ci fermiamo a mangiare un biscotto. Sentiamo in lontananza il rombo di un motore. Arriva una Mustang con a bordo due ragazzi mongoli. Si fermano ma possiamo comunicare solo a gesti. Ripartono e poco dopo spariscono all’orizzonte.



Ogni tanto, sul profilo piatto di questa distesa senza fine, appaiono delle strane forme scure. Sono i resti di qualche animale, finito per sbaglio da queste parti e fatto a pezzi da predatori o avvoltoi.

Ogni tanto ci fermiamo a bere, ma ognuno resta perso nei suoi pensieri. Non c’è molto da dire in effetti. Non mi era mai capitato di sentirmi disarmato in uno spazio così grande e indecifrabile.





Alla fine, quasi per inerzia, arriviamo al villaggio di Saikhan-Ovoo: un pugno di recinti e casupole di legno sperso in questo mare di terra.

Ci dirigiamo subito verso il fiume, per vedere se esiste il ponte di cui ho parlato all’inizio. Eccolo qua, nuovissimo, col catrame ancora caldo. Dunque si può arrivare da qui diretti da Arvaikeer e magari è la strada che farà tutte le mattine il pulmino per portare i bambini a scuola.



Naturalmente prima e dopo il ponte sparisce tutto e c’è soltanto una pista. Questo ponte resta però di fondamentale importanza per questa tappa, perché rende possibile una seconda via alternativa. Vi lascio le coordinate esatte (45°27'45.93"N 103°53'45.01"E).

Troviamo un minimarket. Una bimba piange perché sua mamma non le compera le patatine. Strilla e fa i capricci. Gira scalza, tanto è tutta sabbia. Poco più avanti ci riforniamo ad un benzinaio gestito da miss condominio. Nel villaggio altro non c’è.

Avanti. In marcia, che siamo proprio vicini all’arrivo. Ci sentiamo gasati perché il grosso è fatto.

La pista scorre sempre su questa terra arida e pelata, avvicina il fiume e inizia a salire per una specie di valletta tra collinette rocciose. Il fondo adesso si fa ghiaioso, molto ghiaioso. La pista in salita si inerpica decisa nella ghiaia profonda. Io, che sono impedito ab origine, tengo i piedi giù perché, al di là di tanta teoria, il manubrio va dove vuole lui. Riesco tuttavia a non cadere. Diciamo che è come guidare sui ghiaioni del Po o del Trebbia, ma in salita, e con solchi più profondi. Dimenticavo: naturalmente con niente davanti e dietro per 150 km.

Al colmo della salita, siamo praticamente arrivati. Prendiamo una traccia sulla destra che sale ulteriormente e che ci porta diritti a Ongijn Hijd, una delle mete obbligate per qualsiasi tour nel Gobi.

Si tratta dei resti di un complesso monastico fondato, in questo luogo dimenticato dal budda, nel 1660. In realtà i monasteri erano due, uno per ogni parte del fiume. Complessivamente erano stati edificati 28 templi e al suo apice ospitava oltre 1000 monaci e 4 università buddiste.

La pacchia è durata dal 1660, anno dell’edificazione, al 1939 quando venne completamente raso al suolo dalla furia, alimentata dai russi, del governo comunista mongolo: i monaci vennero uccisi senza tanti complimenti e i sopravvissuti vennero arruolati a forza nell’esercito.

Ma dimmi te che fastidio davano ‘sti poveri monaci, che manco si sapeva praticamente dove si trovavano!

Oggi qualcosa è stato ricostruito, ma rimangono soprattutto le rovine, macchiate di sangue, di questo luogo davvero remoto.







Non si potrebbe entrare, perché in effetti ci sono solo sentierini stretti e ripidi che serpeggiano tra le rovine. Infatti tutti vanno a piedi. Noi ovviamente entriamo in moto…

Abbiamo trascorso una giornata senza incontrare nessuno. E qua all’improvviso sbucano dal nulla gruppi accompagnati da guide: francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli e pure italiani. La loro presenza non ci disturba, per carità, ma non ci dispiace l’isolamento in cui ci siamo infilati per tutta la giornata.

Siamo prossimi al tramonto e serve un posto per dormire. Detto fatto, nelle immediate vicinanza del monastero ci sono tre campi tendati e una guest house pacchiana fatta a forma di castello con i merli. Ecco spiegata la presenza di così tante persone.

Ci dirigiamo al campo più bello e lussuoso, si fa per dire. Si chiama Secret of Ongi. E’ quasi pieno, ma una tenda alla fine salta fuori. Il tempo di sistemarci, fare una doccia e andare a cena. Il personale non è molto sveglio, ma il menu uguale per tutti è discreto. Solo la sala da pranzo, in stile far west ci sembra un po’ fuori dal contesto, ma va benissimo così.



Cala la sera e il fiume diventa d’argento.



Le tende, rassicuranti, ci accolgono per la notte. Lo sentiamo come un premio per la giornata, davvero faticosa, trascorsa.



Siamo proprio in un gran bel posto, davvero bellissimo. La Mongolia, da queste parti nuda e cruda, custodisce i suoi tesori preziosi o se volete le sue sorprese. Basta cercarle.



Infine la Via Lattea e una stella cadente, ci salutano, prima di vederci crollare sfiniti dalla stanchezza di questa lunga giornata.

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Vecchio 26-10-2023, 20:46   #34
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Al termine Ciccio bombo mi sono fermato di leggere. Io sono 128 chili per 1.80 e sono obeso. Certi termini non è educato usarli. Specie per chi è Ciccio bombo.
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Vecchio 27-10-2023, 15:12   #35
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Al termine Ciccio bombo mi sono fermato di leggere. Io sono 128 chili per 1.80 e sono obeso. Certi termini non è educato usarli. Specie per chi è Ciccio bombo.
Il report è accurato e pieno di informazioni, ma certe volte alcuni termini andrebbero evitati, anche per i ristoranti e alberghi lozzo laido ecc: basta un poco più d'attenzione.
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Vecchio 27-10-2023, 17:21   #36
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Eh si concordo. Bisogna avere rispetto.
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Vecchio 27-10-2023, 18:30   #37
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Prendo atto delle vostre osservazioni, che naturalmente rispetto.

Tengo solo a precisare che tutto il racconto è carico di ironia e soprattutto autoironia, perché questo è il mio stile di scrittura, non frutto di disattenzioni o superficialità, e tanto meno animato da intenti offensivi, né riguardo a cose o persone che descrivo, né tanto meno con riferimento a chi legge, di cui ovviamente ignoro sensibilità e caratteristiche fisiche.

Il termine “cicciobomba” – che, per la grammatica italiana, è un epiteto - viene utilizzato per indicare – con tono comunemente familiare e scherzoso (esiste anche una famosa filastrocca… cicciobomba “canottiere) - una persona grassa, quale era appunto il mio interlocutore, il quale oltretutto indossava proprio una “canottiera. Mi sembra davvero evidente l’utilizzo in chiave ironica.

Altri termini come “lurido” o “zozzo”, sono stati utilizzati, non certo per offendere, ma semplicemente per descrivere, secondo il loro significato “proprio”, con un unico aggettivo, delle persone sospettose e un po’ inquietanti che effettivamente erano più che sporche, talmente sporche (probabilmente per il lavoro che stavano svolgendo e il luogo isolato in cui si trovavano) da rendere difficoltosa l’individuazione dei loro lineamenti. Tutto qui.

Talvolta, gli aggettivi possono avere diversi significati, alcuni anche dispregiativi, ma se ci si limita solo a quest’ultima accezione interpretativa (e dunque necessariamente soggettiva) allora andrebbero cancellati da vocabolario della lingua italiana.
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Vecchio 27-10-2023, 18:56   #38
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GIORNO 06 – 19 AGOSTO 2023
Ongi - Bayanzag (160 km in moto)



Oggi ci attende un’altra lunga giornata in mezzo allo zero totale, anzi al doppio zero, come la farina.

Dal nostro campo in riva al fiume Ongi la pista sale subito in mezzo alle montagne, senza tanti preamboli. Il terreno è prevalentemente sabbioso, con la costante del toulé ondulè, tanto per cambiare. Partiamo per ultimi, per cui le jeep dei tour organizzati sono già avanti e non le vedremo più per tutta la giornata. Poco male, tanto ci siamo abituati.

La pista continua per un lungo tratto in mezzo alle solite colline pelate e incendiate dal sole, facendosi spazio in una specie di valletta serpeggiante. Si guida piuttosto faticosamente per il fondo che man mano si fa più sassoso.

Poi tutto spiana e torna il piattume a 360 gradi. Se non fosse per la traccia sul GPS una direzione vale l’altra, tanto è tutto assolutamente uguale. Il sole è una palla nel cielo e di ombra non se ne parla proprio.





Torna il senso di smarrimento che ci ha travolto ieri… e i soliti pensieri nefasti e ansiogeni che ci hanno accompagnato e che ci accompagneranno per un bel pezzo. Se ci succede qualcosa qua in mezzo son banane.

In pratica non c’è niente da vedere, si tratta solo di guidare… possibilmente nella direzione giusta.

Boia se è grande ‘sto deserto: abbiamo calcolato che per venirne fuori ci serviranno cinque giorni. E cominciano a ronzarci in testa ragionamenti del tipo “ma chi ce l’ha fatto fare… anche no… ne avremmo abbastanza” e via dicendo. Insomma è una bella messa alla prova, soprattutto psicologica.





All’improvviso, in lontananza vediamo una macchia scura che potrebbe essere l’ennesimo miraggio, ma avvicinandoci realizziamo che si tratta di una presenza animale in carne, gobbe ed ossa. E’ una mandria di cammelli che se ne sta tutta impacchettata per ridurre la disidratazione: si fanno ombra a vicenda.





In mancanza di distrazioni ce le creiamo. Accelero e mi fiondo al centro del cerchio, giusto per vedere cosa succede. I cammelli mi fanno posto e poi, senza fare una piega, tornano a raggrupparsi come prima. In realtà non siamo mai riusciti ad avvicinarne nessuno, sono animali piuttosto diffidenti e preferiscono tenere le distanze.





Fa piuttosto caldo. Non passa nessuno per tutta la giornata. Solo un camion e un van. Nient’altro. Ammazza oh che posto di nicchia. Volevamo il deserto e adesso ci togliamo la voglia… a dirla tutta ce la saremmo quasi tolta, ma non possiamo decidere noi quando finirà.





Dopo un’altra mattonata di chilometri in mezzo a una mazza, compare un paesetto, in mezzo a una mazza pure lui. Non riesco a spiegarmi per quale logica ragione la gente decida di vivere qui, dove non c’è nulla da fare, ma nulla proprio, neanche pascolare le capre perché non c’è erba. Me lo sto ancora chiedendo.

Il ridente villaggio si chiama Mandal-Ovoo ed è lontano, parecchio lontano, da tutto e tutti. Eppure ci sono alcuni edifici nuovi di pacca. Credo si tratti della scuola, del comune e di qualcos’altro di pubblico, perché le abitazioni sono le solite baracche di legno. La piazza, pavimentata di fresco, è deserta. C’è tutto chiuso, a parte un minimarket con provvidenziale tettoia, che sarà per noi l’unico rettangolo di ombra di tutta la giornata. A proposito, niente benzina, ma lo sapevamo e avevamo fatto scorta ieri.







Proseguiamo, ma la musica non cambia. Il Gobi è sempre uguale, maledettamente uguale. Almeno per un altro interminabile tratto. Ogni tanto ci guardiamo smarriti e cerchiamo un bagno che non c’è.





Avanti e ancora avanti, sempre avanti. Diritti come siluri in questo spazio cosmico orizzontale, davvero immenso, che sembra non finire mai. Dire che siamo destabilizzati è dire poco.







Torna la sabbia e in lontananza vediamo delle strane formazioni rocciose, come dei castelli in mezzo a ‘sto mare di nulla. Guadagniamo un altopiano seguendo delle piste non troppo evidenti. Non capiamo dove siamo diretti perché è tutto un su e giù tra ondulazioni aride.







Arriviamo infine ad un campo tendato. Ci troviamo nella zona di Bayanzag, una delle attrazioni principali di questa terra desolata. In realtà i campi sono due, ma siamo troppo cotti per arrivare al secondo e quindi ci fermiamo al primo. Nella reception ci sono dei ragazzini piuttosto scazzati e per terra c’è sporco. Ci danno una tenda ma per la doccia dobbiamo aspettare. E’ quasi l’ora del tramonto, ossia quella giusta per vedere Bayanzag, che dista un paio di chilometri.

Si tratta di formazioni rocciose di arenaria che si elevano in un sol colpo nel piattume di questo deserto. Sono conosciute anche come Flaming cliffs (Rupi fiammeggianti) perché al tramonto si colorano di arancione. E noi siamo qua per questo. Tra queste rocce sono stati trovati fossili e uova di dinosauri, alcuni presenti soltanto qui.











E’ incredibile come, in mezzo al nulla, ‘sti mongoli si attrezzino per rendere un luogo turistico, appunto turistico. In mezzo a ‘sto posto dimenticato da Dio, troviamo una fila di cammelli fatti di cartapesta, alcune bancarelle di souvenir e addirittura una passerella per camminare comodamente tra le rocce. C’è gente… praticamente tutta quella che dorme nei campi che si raduna qui per il tramonto.



Girovaghiamo tra le rocce (il percorso è lungo circa un chilometro, ma volendo lo si può allungare) e aspettiamo che si colorino di arancione. Tira un filino di vento.



La località è davvero fuori mano e venirci apposta anche no. Però è sulla via classica per arrivare alle dune del Gobi, per cui saltarla sarebbe davvero insensato. Il luogo è molto bello e se passate da ‘ste parti va visto.





Torniamo al campo e ci facciamo una doccia, che dura più di un’ora perché l’acqua esce alla pressione di un bicchiere all’ora appunto. Ma di cosa possiamo lamentarci? L’acqua qua ce la portano con i camion da chissà dove.

Alla sera subentrano i pensieri negativi: ce la faremo a proseguire altri due giorni in questi posti del menga? Iniziamo a farci i film e a prendere in considerazione ipotesi B, C e anche D, come quella di noleggiare un Uaz per andare alle dune di Khongoryn Els, il punto metafisico di questo viaggio. Siamo entrambi tesi, con poca voglia di parlare. Momento no, emotivamente e fisicamente.

La notte porterà consiglio…

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Vecchio 27-10-2023, 20:50   #39
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Di ironico c’è ben poco nell’eticchetare una persona obesa come l’hai descritta tu.
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Vecchio 28-10-2023, 10:44   #40
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Il termine “cicciobomba” – che, per la grammatica italiana, è un epiteto - viene utilizzato per indicare – con tono comunemente familiare e scherzoso (esiste anche una famosa filastrocca… cicciobomba “canottiere) - una persona grassa, quale era appunto il mio interlocutore, il quale oltretutto indossava proprio una “canottiera. Mi sembra davvero evidente l’utilizzo in chiave ironica.
Questo termine non lo userei mai, poi se scappa pazienza, ma è comunque dispregiativo

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Altri termini come “lurido” o “zozzo”, sono stati utilizzati, non certo per offendere, ma semplicemente per descrivere, secondo il loro significato “proprio”, con un unico aggettivo, delle persone sospettose e un po’ inquietanti che effettivamente erano più che sporche, talmente sporche (probabilmente per il lavoro che stavano svolgendo e il luogo isolato in cui si trovavano) da rendere difficoltosa l’individuazione dei loro lineamenti. Tutto qui.
Io mi riferivo a quando è utilizzato per alberghi o ristoranti: di solito io dico dove e cosa ho mangiato (se riesco a capirlo) e poi metto una foto. Chi legge si farà un'opinione

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Talvolta, gli aggettivi possono avere diversi significati, alcuni anche dispregiativi, ma se ci si limita solo a quest’ultima accezione interpretativa (e dunque necessariamente soggettiva) allora andrebbero cancellati da vocabolario della lingua italiana.
Tengo però a precisare che questo è il primo thread (discussione) davvero completo sulla Mongolia che io abbia letto, perlomeno sui forum che frequento. Pieno di indicazioni precise ed utili: dovendo decidere per una vacanza in moto in Mongolia lo consulterei e consiglierei.
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Vecchio 28-10-2023, 11:03   #41
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GIORNO 07 – 20 AGOSTO 2023
Bayanzag – Khongoryn Els (133 km in moto)



La notte ha portato consiglio. Ci svegliamo con meno timori e incertezze. E siamo più motivati, anche perché l’idea di arrivare alle dune del Gobi, su un van con autista, come fanno tutti i turisti, ci sembra un ripiego da sfigati.

Non so cosa sia successo nelle nostre teste, fatto sta che siamo più ottimisti. Chiedo informazioni sulle condizioni delle piste per i prossimi due giorni, perché non ci basta arrivare alle dune, ma dobbiamo anche uscirne. Gli autisti mongoli dei van non capiscono una fava, ma le guide, che parlano inglese, sanno spiegarsi benissimo e tutte ci danno la stessa informazione: oggi troverete nel tratto finale sabbia per 20 km e domani altra sabbia nel tratto iniziale per 50 km.

Partiamo. Ripercorriamo più o meno l’ultimo tratto della pista di ieri, e poi un ulteriore tratto fino al villaggio di Bulgan. Qui facciamo benzina. Il rifornimento è obbligatorio e assolutamente necessario. Incontriamo un gruppo di turisti francesi con la loro guida. Uno di loro parla italiano perché è di origine friulana, come Alberto. La guida ci conferma le condizioni delle piste.

Basta è deciso: si fa e bella che finita. In fondo sono 130 km, meno di ieri e dell’altro ieri.

La pista corre verso est in mezzo al deserto. Sarà che siamo motivati, ma ci è sembrata meno ostica di quella fatta finora. Intendiamoci, il toulé ondulé è sempre presente, ma non mancano tratti più soffici. Erba neanche a parlarne ovviamente.



C’è appena più movimento rispetto allo zero dei giorni scorsi. Qualche van ogni tanto, mica chissà quale traffico.



Non abbiamo fretta. Siamo stranamente rilassati. Ci prendiamo tutto il tempo che vogliamo. In cielo volteggiano le aquile, che hanno tutto il tempo pure loro.







Alla nostra sinistra corre sullo sfondo una catena montuosa di rocce scure, parallela alla nostra traccia. Sembra impenetrabile, eppure un punto per passare deve pur esserci, perché dall’altra parte dobbiamo arrivare. Guidiamo cercando di intuire un varco per attraversare le montagne, una valle, un canale, insomma qualcosa. Sembra che non ci sia nulla.



Dopo un centinaio di chilometri la pista piega decisa verso sud, puntando diritta a questa catena montuosa. Proprio all’ultimo, quando ci sembra di sbatterci contro, appare d’improvviso una valle nascosta che sale tra le cime appuntite. Bene, abbiamo trovato il passaggio.





Il fondo si fa leggermente più sassoso, ma si prosegue bene. Raggiungiamo la sommità della catena, presso una specie di pianoro sopraelevato. La pista spiana e poi prosegue in moderata discesa verso sud-ovest. Gli spazi si amplificano.





In lontananza si vendono nel loro candore accecante le dune di Khongoryn Els che anticipano un’altra catena montuosa di roccia scura.







Scendiamo nella pianura antistante le dune. Qui il fondo, come dettoci dalle guide, è prevalentemente sabbioso, ma non incontriamo particolari difficoltà. Le dune si fanno sempre più vicine.







Arriviamo quindi al campo tendato Gobi Discovery Khongor. E’ metà pomeriggio e non c’è ancora nessuno. Ci danno subito una tenda e ci sistemiamo. Più tardi arriveranno tre ragazzi olandesi in moto e un gruppo di turisti asiatici con guida e van. Nessun altro. Strano. Il luogo è la principale meta del Gobi. Chissà dove sono finiti tutti i turisti che abbiamo incontrato lungo la strada? Forse in altri campi che sorgono un po’ più ad est. Meglio così.



Il nostro campo è veramente molto confortevole. I bagni hanno docce e cessi nuovi e pulitissimi. Si sta proprio bene. C’è pure una parabola piantata per terra che assicura, in ‘sto posto lontano da tutto, la connessione dati: lusso smisurato direi.

Le dune sono indubbiamente una calamita. Non possiamo star qua con le mani in mano. Anche perché sono a portata di mano.

Khongoryn Els sono una distesa di dune che corre in direzione est-ovest per 80 km di lunghezza, 5 km di larghezza e 100 metri di altezza. Sono dette anche "dune che cantano", perché il vento che vi soffia pare produca sorprendenti melodie.



Allora: melodie non ne abbiamo sentite, ma il vento si. Eccome. E pure bastardo perché arriva all’improvviso e ti riempie la borsa e il casco di sabbia. Fotografare è un po’ un’impresa perché il cavalletto non sta dritto. E ti ribalta pure la moto, ancorché ben affondata.



Per arrivare alle dune seguiamo una pista che - ovviamente - si fa sabbiosa, veramente sabbiosa, anzi totalmente sabbiosa. Attraversiamo un torrente dove pascolano i cammelli. Risaliamo dall’altro versante. Tutta sabbia e nient’altro che sabbia. Non siamo affatto pratici, io soprattutto, per cui ci accontentiamo di arrivare alla base delle dune. Salirle per noi è veramente troppo difficile, soprattutto con queste motorette che ci troviamo sotto le chiappe.







Siamo però felici come bambini. Talmente felici che io faccio un salto e Alberto mette a dura prova il suo mezzo meccanico.





Il parco giochi è aperto per bambini mai cresciuti. Lasciamoli sfogare, che se lo son meritato.













Siamo nel punto d’arrivo del nostro viaggio, il punto topico, la molla che aveva alimentato la nostra curiosità di venire in Mongolia. Abbiamo guidato fin qui per vedere queste dune, per starci in mezzo, per dormirci alla base, per sentirci piccoli in mezzo a tutta questa immensità, per sentirci lontani, anzi lontanissimi da casa e dalle comodità di tutti i giorni.







Se pensiamo a dove siamo, in mezzo all’Asia, nel deserto del Gobi tanto desiderato, quasi non ci crediamo. Siamo euforici, strabiliati, emozionati, commossi, soddisfatti e felici, veramente felici… siamo il puntino rosso in questa vastità.



Cala la sera e anche il vento. Ora c’è assoluto silenzio. Le luci delle tende in lontananza tra poco si spegneranno.





Siamo troppo felici per preoccuparci della giornata di domani.

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Vecchio 28-10-2023, 18:45   #42
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Vecchio 29-10-2023, 08:34   #43
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Bellisimo viagggio,grazie per la condivisione
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Vecchio 29-10-2023, 16:12   #44
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Bello Massimo , grazie per averci resi partecipi della tua esperienza .
Mi piace molto come scrivi e descrivi , leggendo il tuo racconto mi da l'impressione di trovarmi davanti ad una birra con un amico che mi racconta il suo vissuto in viaggio ,ironico quanto basta come le persone intelligenti sanno fare , un vero piacere leggerti .
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Vecchio 29-10-2023, 16:45   #45
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GIORNO 08 – 21 AGOSTO 2023
Khongoryn Els - Khanbogd Tourist Camp (161 km in moto)



Oggi ci attendono 160 km per uscire dal Gobi, ma siamo positivi perché gli ultimi 50 sono stati asfaltati di recente.

Prima di partire torniamo però sulle dune per raccogliere una bottiglietta di sabbia ricordo. Il più prezioso souvenir del viaggio, di quelli che non puoi comprare insomma.



Lasciamo il nostro campo tendato e ci dirigiamo in direzione est, lungo un’ampia valle con le dune alla nostra destra. La pista in effetti è piuttosto sabbiosa, come ci avevano detto, per i primi 50 km data la vicinanza alle dune. In realtà quel che disturba è più che altro il solito toulé ondulé, che proprio non ci garba.

Questa mattina c’è un discreto movimento di van che portano e riportano i turisti. Ci sono anche alcuni camion che hanno parecchia difficoltà a muoversi da queste parti, soprattutto negli avvallamenti profondi del terreno. Qualcuno resta pure insabbiato.





Il paesaggio ovviamente è secco incendiato, talmente incendiato che nemmeno i cammelli, quasi rinsecchiti, trovano acqua. Del resto siamo in un deserto dopo tutto.



Arriviamo così nel punto in cui questa lunga catena di dune si esaurisce nella piana arida di questa valle. Ci dispiace lasciare questo luogo che non dimenticheremo facilmente. Sì, perché è di quelli che ti restano dentro, come la sabbia che abbiamo letteralmente ancora nelle mutande.



Ci fermiamo, con un po’ di malinconia (e di prurito), a guardare per l’ultima volta da lontano questa terra veramente lontana. Siamo rilassati, felici, ma anche dispiaciuti. Ma è così che deve andare. In fondo abbiamo soltanto assaggiato il Gobi…



Ci rimettiamo in marcia. La pista ora fila dritta come un filo disegnato sulla terra. Qualche Uaz sfreccia in lontananza a velocità supersonica che noi possiamo solo sognare. Da qui in avanti si volta pagina.



Arriviamo quindi al villaggio di Bajandalaj, poco più di 2000 abitanti. Qui hanno appena fatto una lottizzazione. Ci sono edifici nuovi, viabilità che finisce nel nulla, un paio di banche e stanno costruendo palazzotti moderni. Per il resto, la maggior parte del centro abitato, è fatta delle solite case di legno.

Ci fermiamo nella piazza principale a comperare qualcosa. Poco dopo arrivano i tre ragazzi olandesi che abbiamo incontrato ieri al campo sotto le dune. In bella mostra in piazza sta parcheggiata una Dayun Hunter: in pratica un clone delle nostre Mustang, stessa componentistica e stesso motore, con l’illusione di cavalcare un enduro.



A proposito: abbiamo finito i soldi, quelli mongoli. Aspettiamo che aprano le banche: la prima non cambia, la seconda cambia solo con carta di credito. I soliti 45 minuti per sbrigare la complessa pratica ed esco con un altro paccone di soldi. Ora siamo più tranquilli perché da queste parti gli euri non li accettano dappertutto.

Appena fuori dalla cittadina, inizia l’asfalto, nuovo di stecca, liscio come un biliardo. Si guida che è una meraviglia. Arriviamo ad un incrocio dove, sulla destra, inizia la pista per le gole di Yolyn Am (che esploreremo domani). Il campo tendato che si vede dalla strada, così a pelle, non ci piace; quindi prendiamo una pista in direzione nord che si perde tra le colline. In lontananza si vede l’immensa pianura dove sorge la città di Dalanzadgad, che dovrebbe essere, salvo errori, la più grande della Mongolia meridionale con i suoi 15.000 abitanti.



Appena 4 km di piste ci separano da un altro campo, non visibile dalla strada principale, che sorge in una bella radura riparata tra le montagne: Khanbogd Tourist Camp.

Caspita che posto! Le tende sono ben tenute, i bagni eccellenti con docce bollenti e immacolate e il ristorante degno di questo nome dove abbiamo poi cenato divinamente. Ma torniamo alla sabbia nelle mutande, quella accumulata durante le raffiche di vento traditrici sulle dune di ieri… beh abbiamo fatto il bucato lasciando nei lavandini tanta di quella sabbia da intasare gli scarichi.



La serata è limpida e si sta davvero bene. Questo è il miglior campo incontrato durante tutto il viaggio. Splendido veramente.



Sulle colline che circondano il campo hanno piantato delle statue di animali. Ci sono l’orso, lo stambecco e il muflone. Ci arrampichiamo in cima per osservare il panorama. E’ tutto così straordinariamente bello. Siamo in pace con il mondo e con il Gobi, che si è concesso e ci ha fatto passare senza danni. Non potevamo immaginare un epilogo più grandioso di questo.







Poi arriva il tramonto e ci regala la solita magia. Anche questa volta ci sentiamo accolti e protetti da questa natura davvero così diversa da quella che siamo abituati a vedere.





Salutiamo l’ultimo tramonto del Gobi e ci infiliamo nei nostri comodi letti.

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Vecchio 30-10-2023, 18:11   #46
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GIORNO 09 – 22 AGOSTO 2023
Khanbogd Tourist Camp - Dalanzadgad (111 km in moto)



La giornata di oggi è tutta dedicata all’esplorazione dello Yolyn Am Canyon, che si trova giusto a due passi, per cui non abbiamo nessuna fretta, dato che la strada è poca e stasera ci attenderà finalmente un hotel con bagno in camera.

L’idea è quella di percorrere queste famose gole, che, ai margini del deserto del Gobi, sono percorse da un torrente. Non vorremo tuttavia fare la puntata classica che fanno un po’ tutti, nel senso che vanno e vengono dalla stessa strada: abbiamo in mente di seguire un tracciato ad anello, che però, da quel che ho intuito, in pochi fanno, raramente i tour organizzati perché, come poi vedremo - in un paio di punti - gli Uaz credo non passino proprio.

Torniamo alla strada asfaltata di ieri, la attraversiamo e prendiamo una pista che punta, a sud, diretta alle montagne di roccia scura. Il tracciato risale una stretta valletta incastonata tra le pietre. Saliamo decisi per 400 metri di dislivello con alcuni saliscendi. L’ambiente è piuttosto opprimente e ci sentiamo sovrastati dalle rocce incombenti.

Arriviamo ad un bivio fondamentale: a sinistra ci attendono le gole vere e proprie dove la pista finisce in un sentiero percorribile solo a piedi, mentre a destra, in teoria (ma anche in pratica) si può tornare facendo il giro completo.

Via, dunque, sparati a sinistra fin dove la strada finisce in un comodo parcheggio, dove ci sono un paio di chioschi di souvenir e un gruppo di ronzini in attesa di clienti. Per la modica cifra di 15 euro noleggiamo due destrieri, pardon ronzini, e una guida mongola su ulteriore ronzino.

Il cavallo consente in una mezz’ora di percorrere il tragitto che, a piedi, richiederebbe invece un paio d’ore. Sia chiaro: non è un’avventura, ma una cosa da turisti, però l’idea di provare il cavallo ci attira e quindi saliamo in sella.

‘Ste povere bestie, costrette controvoglia a fare per tutta la vita lo stesso percorso avanti e indietro, ci fanno pena, perché non ne avrebbero nessuna voglia. E lo si capisce benissimo dal fatto che la guida le tira costantemente per il morso. Ma questi ci hanno dato e questi ci teniamo.

Il canyon parte piuttosto largo. Gli yak brucano la rara erba sentendosi fortunati rispetto ai cavalli che, l’erba, la possono solo guardare.



Io sono parecchio impacciato, nonostante la sella sia comoda, e pure un po’ perplesso perché ‘ste povere bestie non mi convincono del tutto: se non fossero legate al capo gita, di sicuro ci disarcionerebbero perché sono piuttosto scazzate.







Soffrono poi di meteorismo, e quella di Alberto pure di incontinenza.



Più avanti il sentiero si fa veramente stretto e io vorrei tanto proseguire a piedi, ma il giamburrasca che guida la carovana non fa una piega e prosegue ugualmente, seguito dai quadrupedi obbedienti.

Finalmente decide che non si può più proseguire (e ti credo perché ci vorrebbe la moto da trial). Quindi ormeggiamo i cavalli che tirano un sospiro di sollievo.







I cavalli che abbiamo visto fino ad ora sono tutti piuttosto piccoletti, una via di mezzo tra un pony e un cavallo di taglia normale. Non me ne intendo, ma credo che siano proprio di marca fatti così. Comunque sanno galoppare e dicono che siano anche robusti.

Bene. Finalmente si prosegue a piedi. Il canyon è suggestivo. C’è pure un rigagnolo d’acqua. Più avanti lo spazio diminuisce fino ad un restringimento evidente. In realtà il canyon e il torrentello proseguono oltre, ma bisogna scendere per facili rocce e proseguire.













Si potrebbe anche fare perché di tempo ne abbiamo, ma il capoclasse viene a recuperarci con il suo destriero. E’ ora di tornare.



In una mezzora siamo di nuovo al parcheggio e in breve torniamo al fondamentale bivio. Teniamo la sinistra e imbocchiamo una pista che dovrebbe portarci ad un altro canyon, con un suggestivo restringimento, dove gli Uaz, secondo me, arrivano solo dall’altra direzione e poi tornano. Noi invece vogliamo percorrerlo tutto.

Il canyon in cui ci siamo infilati corre grosso modo in direzione est-ovest. Noi veniamo da est e siamo diretti a ovest. I tour organizzati invece, solitamente, entrano ed escono da ovest fino al fotogenico restringimento in questione, perché oltre non passano, almeno nelle condizioni che abbiamo incontrato noi. E infatti non abbiamo visto nessuno passare il punto fatidico.

La pista non è semplicissima e presenta alcuni salti, anche rocciosi, stretti e parecchio sconnessi. In un paio di punti passa appena una moto, e non solo in larghezza ma anche in altezza, nel senso che qualsiasi veicolo si pianterebbe di muso. Il punto più delicato è costituito da una salita molto ripida di terra instabile con solchi profondi. Si tratta di una cinquantina di metri, ma parecchio in piedi, talmente in piedi che la moto lanciata in prima a gas spalancato e di slancio ne esce a fatica per la poca potenza a disposizione. Alberto comunque riesce, mentre io mi incastro in uno dei solchi e mi pianto. Da buon samaritano pensa lui a togliermi di impaccio. Sono sfigato, lo so. Compatitemi.

Il canyon comincia a stringersi. Arriviamo al punto più fotogenico. Qui troviamo un fenomeno che ha provato a passare oltre con una Toyota Prius. Passare è passato, ma ha bucato nel bel mezzo del torrente.





Ben gli sta. Possibile che la gente debba per forza andare dove non si può? Comunque poco più avanti avrebbe dovuto in ogni caso tornare indietro per forza per i motivi di cui sopra… e pure in retromarcia perché non c’è spazio per girarsi.

Entriamo nella gola e passiamo il punto topico. Ovviamente per le moto c’è spazio in abbondanza. Il posto è davvero bello.





Oltre il collo di bottiglia, il canyon incomincia gradualmente ad aprirsi. Il fondo qui è tutta ghiaia ovviamente, dato che siamo nel greto del torrente.







La pista principale proseguirebbe verso ovest in campo aperto, bella comoda, ma noi decidiamo di complicarci la vita. Sì perché avevamo in mente di chiudere l’anello delle gole. Così prendiamo un’altra pista in direzione nord, che, dopo un breve tratto evidente, si fa ben presto poco marcata.







Ci troviamo di fronte ad un’altra salita assai ripida in terra mossa. Questa volta però, ascolto gli insegnamenti di Alberto, e riesco a superarla. La pista inizia a salire decisa per guadagnare un pianoro sopraelevato. In lontananza vediamo la strada asfaltata che dovremmo raggiungere, solo che non sappiamo come.

In pratica ci troviamo a guidare su terreno libero. Facciamo vari tentativi a vuoto. Finiamo sopra uno strapiombo sopra un torrente in secca. Dietro front. Proviamo a seguire un’altra direzione ma ci troviamo sul bordo di un altro salto, da cui non riusciremo poi a tornare indietro. Proviamo e riproviamo in ogni direzione. In realtà ci stiamo divertendo un sacco, perché la guida libera, quella di ricerca pura, ha sempre il suo fascino. Ci siamo, in poche parole, persi, ma non siamo preoccupati, perché in lontananza vediamo l’asfalto: il problema è come raggiungerlo. Poco male, alla peggio torneremo indietro. Siamo super rilassati. Alla fine, prova e riprova, finiamo dentro il greto asciutto di un fiume, con sassi grossi e poco divertenti, oltre il quale guadagniamo finalmente l’asfalto.

E’ stato il pezzo più appagante della giornata: la guida fuori pista non ha paragoni, fidatevi.

Ora non ci rimangono che 50 km di asfalto veramente perfetto fino a Dalanzadgad. Per prima cosa cerchiamo una banca perché siamo di nuovo a secco. Solita trafila e solito malloppo di carta in mano. Poi puntiamo al miglior albergo della città: il Khan Uul Hotel & Suite, dove più tardi arriveranno anche i tre olandesi senza patente che abbiamo conosciuto nel Gobi. Ci danno una superior per 23 euri. Qualche problema per quanto riguarda l’acqua calda, ma i letti sono confortevoli e le moto al sicuro in garage.



La cittadina non è un granché: un doppio viale alberato decadente e poco più. In poche parole è un mortorio. Brutta come poche. E parliamo con cognizione di causa, perché l’abbiamo girata in lungo e in largo alla ricerca di un ristorante.

Alla fine non ci resta che il Khishig Zoog Pub & Restaurant, che però non troviamo subito, perché se ne sta imboscato al quinto piano di questo anonimo condominio.



E’ già buio. Le luci delle scale non funzionano, così come l’ascensore. Quindi ci facciamo il tour panoramico: al primo piano c’è un ambulatorio medico, al secondo c’è un’assicurazione, al terzo un altro ambulatorio e al quarto un ufficio di non so che cosa. Sebbene siano le nove di sera, le porte sono tutte aperte anche se dentro non c’è nessuno.

Il ristorante al quinto piano è quasi vuoto. Le tovaglie sono sporche e incrostate ma il menu è invitante, talmente invitante che quasi tutto quello che propone non è disponibile, così finisco per ordinare la mia seconda pizza mongola.

Google traduttore corre in aiuto… moderatamente in aiuto perché mi preoccupa l’enigma della parte chiamata “pizza mista”. Non capisco cos’è ma la ordino fiducioso. Non vi dirò mai com’era.





Il top però sono i vini, sui quali non c’è molto da aggiungere. Voliamo bassi e ci dirottiamo su una rassicurante birra.



Stiamo meditando su come gestire i prossimi tre giorni a disposizione per rientrare a Ulan Bator. In effetti siamo un po’ stanchi, e anche appagati di come è andato sinora il viaggio. Saremmo anche a posto di piste, sabbia e soprattutto toulé ondulé. Ci frulla l’idea di accorciare il rientro e dedicare un giorno in più alla capitale.

Ci penseremo domani, ora dobbiamo cercare di digerire…

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Massimo Adami
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Ultima modifica di Massimo; 30-10-2023 a 18:23
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Vecchio 31-10-2023, 19:06   #47
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GIORNO 10 – 23 AGOSTO 2023
Dalanzadgad – Mandalgovi (305 km in moto)



L’idea originaria era quella di rientrare a Ulan Bator in tre giorni, dormendo in due campi tendati. Il tutto per la bellezza di altri 650 km, di cui 180 sterrati, con sosta a Tsagaan Suvarga e Baga Gadzriin Chuluu, due attrattive diciamo classiche di tutti i tour organizzati.

Avevamo però messo in conto, in caso di emergenze o di ritardi sulla tabella di marcia, di poter rientrare in due giorni facendo tutto asfalto, con minor chilometraggio (580 km). Invece siamo puntualissimi.

Peraltro la voglia di fare altro sterro ci era già passata ieri sera, perché in effetti siamo abbastanza stanchi. Tra l’altro le due mete programmate sono su deviazioni dal percorso principale, che sale diritto da sud a nord, per cui decidiamo di avviarci e, caso mai, di deviare se ci venisse voglia.

La voglia poi non ci è venuta, ma di sterro comunque ne abbiamo fatto lo stesso.

Per rendere l’idea, la mappa qui sotto evidenzia in blu il percorso che poi abbiamo seguito (tutto asfalto) e in rosso le deviazioni sterrate (che abbiamo saltato).



Che cosa ci siamo persi? Beh queste altre due attrazioni, come detto, Tsagaan Suvarga e Baga Gadzriin Chuluu.





Questi due giorni sono di una monotonia mortale, del tipo attraversare tutta la pianura padana da Trieste a Torino ai 50 all’ora, con in mezzo praticamente nulla o quasi. Tutto piatto, tutto brullo, tutto uguale, tutto palloso, per cui non c’è molto da dire.

Però è una cosa che va fatta se vogliamo tornare a Ulan Bator.

Usciamo da Dalanzadgad e subito facciamo benzina. Quindi ci infiliamo sull’unica strada che punta a nord. Questa sola c’è, per cui è difficile sbagliarla. L’asfalto è generalmente buono, ma traditore. Sì perché c’è un discreto numero di buche profonde in cui è meglio non finire dentro. La guida richiede dunque attenzione, anche se giocoforza andiamo piano. Il traffico è scarso, quasi inesistente.

Ci fermiamo per una pausa. Un pastore arriva in una piazzola di sosta a vendere il latte delle sue mucche che offre confezionato in bottiglie vuote dell’acqua minerale.

Facciamo tratti di 50 km al colpo e poi ci fermiamo perché altrimenti rischiamo di addormentarci per la monotonia. Arriviamo ad un’altra area di sosta, dove sta una specie di baretto. Ci sono dei mongoli che muniti di maschere antigas stanno scaricando un camion pieno di fertilizzanti… a pochi metri da chi sta mangiando in mezzo alla polvere. Altri mongoli scendono da un pullman e scatarrano per terra. Non ci viene voglia di mangiare e ripartiamo.

Poco oltre stanno riasfaltando la strada e quindi siamo costretti a lunghissimi bypass su piste sabbiose che si diramano ad cazzum a fianco della careggiata. Sterro quindi obbligatorio.

Ho problemi alla catena, che sulle piste, per gli scossoni, continua a cadere. La rimetto senza fatica perché è proprio lasca. Operazione che rifaccio più volte, fino a quando Alberto, preso da misericordia, tira fuori i ferri e risolve il problema una volta per tutte.

Alla fine arriviamo nella cittadina di Mandalgovi e puntiamo al primo albergo che vediamo dalla strada: uno scatolotto rettangolare che si chiama Awuo Hotel Restaurant.



Una vecchia mongola, con la mania della pulizia, sta alla reception ma non capisce nulla di quello che le chiedo. Con l’aiuto di una cameriera dell’adiacente ristorante, riesco a prendere una camera per la modica cifra di 19 euro: questa.



Poco dopo arrivano anche i tre olandesi, che ci seguono a distanza. Hanno avuto problemi ad una delle Mustang: in pratica la pipetta della candela non faceva contatto. Ne hanno comperata una di riserva non so dove e l’hanno cambiata nel parcheggio dell’albergo. Erano incazzati non poco perché la moto continuava a spegnersi.

Penso alla fortuna che abbiamo avuto con le nostre motorette.

Dopo la cena nel miglior ristorante della città, andiamo a dormire. Non vediamo l’ora di cavarci dalle palle ‘sta strada interminabile.

GIORNO 11 – 24 AGOSTO 2023
Mandalgovi - Ulan Bator (276 km in moto)



Dai che oggi se Dio vuole, dovremmo arrivare a Ulan Bator.

Di nuovo in sella senza novità paesaggistiche. Sempre la solita solfa: tutto piatto e secco. Solite buche profonde sparse a random. Sempre i soliti lunghissimi bypass su piste laddove la strada è in riasfaltatura.



Soltanto a un centinaio di chilometri a sud della capitale, incominciano le praterie, quelle verdissime delle cartoline. Aumenta il traffico surreale, in cui ci infiliamo coraggiosi e rassegnati.

Finalmente parcheggiamo in hotel, dove ritroviamo i nostri bagagli e la nostra camera. Di nuovo nella comodità. Per cena, dato che abbiamo le scatole piene di cibarie mongole, ci infiliamo al Veranda Restaurant, che propone cucina internazionale e italiana (modificata). E’ frequentato prevalentemente da occidentali e da mongoli benestanti. Si mangia davvero bene, nonostante le modifiche. E’ decisamente il migliore di tutti quelli provati. Vado con la terza pizza mongola: very good.



Domani e dopodomani faremo i turisti.

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Vecchio 01-11-2023, 11:07   #48
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EPILOGO – 25 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Ulan Bator (19 km in moto)



Turisti dicevo. Ebbene eccoci qua, pronti ad un bagno di cultura mongola.

La capitale, all’inizio, ci aveva parecchio disorientato perché è una città decisamente brutta, costruita in maniera approssimativa, con un‘espansione edilizia fuori controllo: si costruiscono grattacieli modernissimi a cifre da capogiro a fianco di vecchi caseggiati di stampo sovietico.

Ora che ci siamo ritornati, ci fa già un altro effetto. Ci pare più decifrabile nelle sue contraddizioni.

Bene, ci avviamo verso la piazza principale, dove sta piantata – devo dire doverosamente – la statua di Marco Polo.



Ci dirigiamo quindi al Museo Nazionale della Mongolia. Seppur piccolo, è davvero una tappa irrinunciabile e merita di essere visitato, perché racconta la storia di questo paese, non solo quella del grande impero di Gengis Khan, ma anche quella recente, che in pochi conoscono.



Dopo l’epoca sovietica, quando la Mongolia in pratica era una specie di satellite russo (quanto meno per sottrarsi all’influenza dei cinesi, tanto odiati e contro cui aveva pure combattuto), e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, qui è iniziata una protesta pacifica per voltare pagina e trasformare il paese in una democrazia.

In estrema sintesi: nel 1989 inizia la fine del partito unico comunista e si fanno spazio nuovi partiti democratici, social-democratici e nazionalisti, che esigono riforme. L’anno successivo si celebrano le prime elezioni multipartitiche, ma i comunisti mantengono il potere, anche se aprono le porte alla liberalizzazione politica e soprattutto economica, di cui la Mongolia aveva un gran bisogno.

Nel 1992 viene promulgata la nuova costituzione e, sempre in quell’anno, il Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo vince le elezioni, mentre le ultime truppe dell'ex Unione Sovietica abbandonano definitivamente la Mongolia.

Tutta questa storia, fatta di rivoluzioni pacifiche, con eschimo e colbacco, non ci viene insegnata a scuola, ma in questo museo viene raccontata con fotografie e oggetti dell’epoca. Davvero interessantissima.

Il museo ripercorre inoltre la storia del paese dalle origini. E’ un po’ lo scrigno che racchiude l’identità di questo fiero popolo, un tempo grande e potente. E’ trattata bene anche la parte relativa al breve impero di Gengis Khan e ai costumi locali. Direi che bisogna per forza vederlo.











Ci spostiamo quindi al Museo di Storia Naturale della Mongolia, piccolo e poco interessante. Sembra quasi un museo di paese. L’unica emergenza è costituita dalla parte dedicata ai dinosauri.

A dirla tutta non potevo assolutamente mancare di visitarlo per una ragione molto personale. Mio figlio da piccolo collezionava e giocava con gli animali della Schleich (chi ha figli sa cosa intendo) e come tutti i bambini era appassionato di dinosauri. A tre anni mi raccontava che uno dei suoi dinosauri – un Saichania – era rarissimo e che l’unico esemplare era custodito nel museo di Ulan Bator. Tre anni dicevo…

Gli avevo promesso che saremmo andati insieme a vederlo, in una sorta di viaggio sognato, ma poi mai realizzato. E’ cresciuto e si sa, gli entusiasmi passano per lasciar posto ad altro. La promessa mancata, potevo mantenerla solo a metà… nel senso che ora mi trovo qui da solo e non con lui.

Eccolo qua il Saichania: ricostruito a dire il vero, ma il teschio fossile, probabilmente uno dei pochi esistenti al mondo, è qui.



Ho fatto qualche passo indietro, in mezzo alla sala e mi sono visto di spalle mentre tenevo il mio bambino per mano ad ammirare il suo dinosauro preferito. Il resto delle sensazioni, quelle di un padre, sono troppo intime per raccontarvele.

Scusate la divagazione, che sono certo non interessa a nessuno, e torniamo al museo. Piccolo e poco interessante dicevo, ma qualche altro dinosauro fa bella mostra in una stanza dedicata.





Usciamo in direzione ovest dalla zona centrale della città, oltre il fiume. I quartieri si fanno più modesti e le strade sono in parte ancora sterrate.



Siamo diretti al Monastero di Gandantegchinlen Khiid, che poi è una vasta area in cui stanno piantati templi buddisti.

Abbiamo la sensazione che la Mongolia sia fondamentalmente atea, perché in giro sono rarissimi i luoghi di culto. E anche nella capitale è così. La zona religiosa infatti è quasi tutta concentrata qui. E qui la gente viene a sposarsi.

Parlo con cognizione di causa perché ci siamo imbucati a due matrimoni, cosa a cui non riesco proprio a resistere. Sposi felici, invitati agghindati nei loro costumi tradizionali, fieri come pochi. E poi damigelle e tutto il resto. Addirittura le mamme delle spose sono venute a stringermi la mano. Adoro i matrimoni degli altri…







Entriamo in uno dei templi, dove si sta celebrando una cerimonia. Una moltitudine di monaci recita delle litanie monotono che mi fanno addormentare. Forse c’è la cresima di qualcuno. Boh. Alla fine suonano delle specie di trombe enormi e lunghissime, del tipo “la messa è finita andate in pace”, solo che tremano anche i muri per il suono assordante che emettono. Via. Fuori, e di corsa.



Ma è il tempio principale l’attrattiva topica. Si, perché all’interno custodisce una colossale statua del Buddha in piedi, alta 20 metri. Esagerati proprio…







Comunque tutto il complesso monastico, che è una sorta di cittadella nella città, è stato uno dei pochissimi a salvarsi dalla furia distruttiva stalinista, perché era considerato monumento storico. Chiuso nel 1938 ma non distrutto, fu riaperto nel 1944 ed è stato per un bel pezzo l’unico in funzione in tutta la Mongolia.

E’ venuta l’ora di un gelato. Anzi due.



Si è fatto tardi. Dobbiamo restituire le moto. Ce ne eravamo quasi dimenticati. Via di corsa in albergo e poi dentro di petto al traffico allucinante della citta, che richiede i suoi tempi. Vogliamo fare gli splendidi e decidiamo di lavare le moto. Per qualche euro tornano nuove. Manco quando le abbiamo ritirate erano così lustre.



Arriviamo da Cheke Tours quasi all’ora di chiusura. La cauzione ci viene restituita senza battere ciglio. Vediamo le moto dei tre olandesi nel cortile. ‘Sto giro sono arrivati prima di noi. La signora che gestisce tutta la faccenda ci chiama un taxi. Abbiamo il tempo di una chiaccherata.

Torniamo in albergo che è veramente tardi. I ristoranti sono praticamente tutti chiusi. Così ci dirigiamo nei market che sono l’unica cosa aperta a quest’ora. Abbiamo camminato tantissimo oggi. Siamo sfiniti. Fortuna che i letti sono comodi….

EPILOGO – 26 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Ulan Bator (zero km in moto)

Mi sveglio sottotono, non mi sento benissimo, sono un po’ cotto. Oggi l’ultimo giorno, quello dedicato allo shopping. Niente centri commerciali però.

Il Narantuul Market, conosciuto anche come mercato centrale o mercato nero, è il più grande della capitale. Giusto per dare l’idea occupa una superficie di oltre 200.000 metri quadrati in cui trovano posto circa 15.000 commercianti.



Ci si trova di tutto, ma proprio di tutto. La maggior parte della merce è di importazione cinese. Ovviamente è il regno del falso: qua si copia di tutto, dalle aspirapolveri Dyson alle scarpe Nike. Se si cerca qualcosa qui la si trova.



Come dicevo all’inizio di questa storia, è raccomandato entrarci solo con il denaro che pensate di spendere, senza borse, borselli, zaini, telecamere e quant’altro. Gli spazi sono davvero stretti, il contatto fisico con la moltitudine di gente è costante, per cui il rischio di borseggi è reale.



Tra un po’ iniziano le scuole. E’ tutto un via vai di mamme che comprano i grembiuli per i loro figli. Poi ci sono le bancarelle che vendono gli zainetti. Altre che sono cartolerie dove ci stanno pacchi di quaderni in offerta.

Noi cercavamo nello specifico dei cappelli mongoli e un po’ di regali. Alla fine li abbiamo trovati, ma data la vastità siamo rimasti dentro almeno quattro ore.



La Mongolia è famosa per il suo pregiato cashmere, che ovviamente costa molto poco se paragonato al mercato europeo. Usciamo dal mercato e ci dirigiamo in centro. Entriamo in due grandi negozi che vendono solo capi 100% cashmere. I prezzi sono più che abbordabili. Prendiamo qualche sciarpa e già che ci siamo delle calze di cammello e yak.

Verso sera, prepariamo i bagagli e torniamo nel nostro ristorante preferito, il Veranda Restaurant per l’ultima cena mongola, che però è internazionale. L’ultima notte mongola sarà breve perché all’alba dobbiamo alzarci.

EPILOGO – 27 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Verona (zero km in moto)

Oggi sarà una lunga giornata.

Un taxi ci aspetta fuori dall’hotel. Sono le 4 e mezza del mattino. Ci imbarchiamo per Istanbul. Dopo nove ore di volo, ci sollazziamo per altre cinque nel faraonico aeroporto turco. Seguono altre due ore abbondanti di volo fino a Venezia. Quindi bus navetta fino in stazione, treno, autobus e poi finalmente a casa.

Tra una cosa e l’atra siamo stati in ballo altre 26 ore filate.

Indubbiamente sono stanco, ma contento. Abbraccio la mia famiglia e mi butto finalmente a capofitto su una amatriciana.

CONCLUSIONI



Siamo partiti carichi di curiosità per questa terra di cui poco sapevamo. Abbiamo incontrato qualche difficoltà di ambientamento nella sua caotica capitale. Ci siamo sentiti disorientati nella vastità dei suoi spazi. Ma ne siamo rimasti incantati.

La Mongolia è grande, veramente grande. E praticamente disabitata. Non sono poi così tanti i posti al mondo dove si può girare - in sicurezza assoluta - senza incontrare quasi mai nessuno.

Bisogno di isolamento? Forse sì. Bisogno di staccare la spina? Anche. Bisogno di sentirsi infinitamente piccoli in luoghi immensi? Pure. Bisogno di misurare le proprie emozioni, paure, disagi e incertezze? Soprattutto.

Ognuno ha le sue motivazioni, queste sono state le mie. Ed ho trovato in Mongolia lo scenario perfetto.

Detto questo, la Mongolia in moto è tecnicamente facile e quindi alla portata di chiunque. Mentalmente lo è un po’ meno, perché occorre mettere in conto la gestione emotiva in spazi così dilatati.

Chi non se la sente di viaggiare in autonomia e in pochi, può naturalmente optare per i tour organizzati, che tolgono ogni pensiero. Devi solo guidare, in fila indiana, seguendo gli altri, ma personalmente ritengo che sia un’esperienza un po’ a metà, troppo comoda, riduttiva e limitante, un peccato insomma, perché le emozioni individuali restano inevitabilmente compresse e inespresse.

Per chi invece è già un po’ abituato a muoversi fuori Europa con i propri mezzi, e facendo affidamento solo su se stesso e sui suoi compagni, la Mongolia, a mio parere, è una destinazione da prendere in considerazione. E poi, mica serve chissà quale grande esperienza!

Il massimo sarebbe arrivarci via terra, con un viaggio nel viaggio, ma per chi - come noi e come molti - ha tempi ristretti, il volo con noleggio è l’unica possibilità.

Ho notato però una anomalia. Quando si sente parlare di Mongolia, spesso viene spontaneo dire: “Wow… che figata… mitico… grande” e via dicendo.

Ma sono esclamazioni che muovono più dall’istinto che dalla consapevolezza. Sì, perché In rete si trovano rare e frammentarie informazioni su viaggi in Mongolia in autonomia (almeno io ne ho trovate pochissime). Sui social poi la gente solitamente posta qualche foto senza fornire informazioni utili.

In sostanza manca materiale pronto all’uso e aggiornato per offrire, a chi intende cimentarsi in questa impresa (che poi impresa non è), dati concreti e pratici per metabolizzare (prima) e organizzare (poi) un viaggio in Mongolia, senza rivolgersi all’intermediazione altrui.

Il mio intento era proprio quello di cercare di sopperire a questo buco informativo. Spero di esserci riuscito, nei limiti delle mie possibilità naturalmente e, nel bene e nel male, con il mio stile narrativo.

E, con il senno del poi, se avessi reperito in anticipo le informazioni di cui avevo bisogno (comprese le tracce GPX verificate), avrei affrontato la cosa con più consapevolezza e meno patemi d’animo… diciamo già preparato.

Mi piace pensare che qualcuno di voi sia ora un po’ più convinto che in Mongolia si può andare anche senza supporto logistico, perché così è in effetti.

La mia incondizionata e smisurata riconoscenza va naturalmente ad Alberto Cantoni, saggio, collaudato e premuroso compagno di viaggio, che mi ha sopportato e sostenuto anche in questa esperienza, come solo lui sa fare. Tutto quello che avete letto è stato vissuto e condiviso in due. Senza di lui tutto ciò non sarebbe stato possibile. Grazie davvero e di cuore.

Alla fine di questa storia, avrete capito che sono un motociclista normale, non un viaggiatore evoluto, uno come tanti insomma. Se ce l’ho fatta io, che ormai sto volgendo alla vecchiaia, può farcela chiunque.

E con questo, vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro le migliori avventure!

Tutto questo racconto è scaricabile in formato PDF nel capitolo FILES al post n. 18.

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Massimo Adami
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Massimo non è in linea   Rispondi quotando
Vecchio 01-11-2023, 11:40   #49
essemme
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stavo proprio per scriverti chiedendoti se avevi fatto un pdf!

grazie Massimo!
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c'è troppa democrazia.
tutti froci col culo degli altri.

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essemme non è in linea   Rispondi quotando
Vecchio 01-11-2023, 16:18   #50
stino
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Grazie Massimo,bellissimo racconto
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