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ZAGOR 30-08-2017 18:33

Bellissimo complimenti !:D:D:D
(altro viaggio da mettere nel cassetto)

ettore61 30-08-2017 20:23

allora, siamo qui in ansia, dove sei finito.....

Massimo 30-08-2017 20:27

Ci sono. Sto preparando la prossima puntata, che è bella polposa (spero)

Massimo 31-08-2017 19:26

GIORNO 5 - 09 AGOSTO 2017
Lamayuru - Kargil (104 km in moto)

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Passo una notte in bianco per via della birra scaduta. Al mattino presto decido di risolvere la faccenda in maniera drastica: due dita in gola e via.

Mi sento subito meglio ma decido per prudenza di non visitare il Monastero di Lamayuru all’alba, che ci sta proprio sopra la testa su uno zoccolo roccioso in stile Meteore. E’ un peccato perché potevo assistere alla preghiera del mattino cantata in monachese.

Salto pure la colazione. E finalmente si parte: direzione Kashmir. Non prima però di aver salutato nonna Gina, tutta felice che ce ne andiamo fuori dalle balle.

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Per mettere il becco in Kashmir bisogna scavalcare in sequenza due passi il Fotu La (4108 m) e il Namika La (3700 m). Il primo attacca subito dietro il paese con una prima serie di tornanti.

La strada prosegue poi per un lungo altopiano brullo e arido salendo moderatamente di quota.

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Una sosta di cazzeggio e una foto, giusto per non dire che stiamo salendo troppo velocemente, dati i razzi nucleari di cui disponiamo.

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In giro c’è poco traffico; solo qualche camion gironzola per queste montagne.

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Inizia quindi una seconda serie di tornanti, tutti attorcigliati tra loro che si fanno fotografare vanitosi dall’alto. E’ una goduria guidare, anche se - con sti trattori che ci troviamo sotto le chiappe – più di tanto non possiamo “apprezzare” (mettiamola così) tutto sto po’ po’ di serpentine.

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Più in alto la valle (e la strada) rendono meglio l’idea degli spazi.

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E poi, la targa con la biro, anche davanti, ha sempre il suo bel perché.

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Purtroppo la giostra finisce presto e arriviamo al passo: poche moto, qualche ciclista indiano e le solite bandierine colorate. Quindi le foto di rito (non si dica mai che sto contando frottole e che mi sono inventato tutto).

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Il nostro Antonio, che di buddismo se ne intende, è sempre a suo agio in mezzo alle bandiere. Va che contento!

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La discesa sul versante ovest è pressoché priva di tornanti e quindi possiamo cazzeggiare con la goproz in mano, cosa che ci viene benissimo.

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Più avanti, prima di attaccare il Namika La, si apre alla nostra sinistra una forra: chissà dove porterà…. di certo non con mezzi a motore, perché quella che sembra una strada in realtà è una canaletta di cemento per la raccolta delle acque.

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Ogni tanto incontriamo qualche paesello, dove c’è chi gira per strada con una pentola in mano tutto felice. Contento lui, contento anch’io.

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Il nastro d’asfalto, devo dire qui ben tenuto, scorre placido tra le montagne e noi guidiamo belli rilassati, distanziati e a volte appaiati.

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Il re dei minchioni comunque sono io e qui si vede benissimo.

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Arriviamo dunque sul Namika La, e anche di questo “ci ho” le prove.

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Che cosa ci troverà Donato a ciucciare la liquirizia per me rimane ancora un mistero…

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Ora ci tocca l’ultima discesa, sempre in direzione ovest. Siamo quasi ai confini occidentali dell’area buddista, che tra pochi chilometri finirà. Il paesaggio è sempre secco incendiato e di piante ovviamente neanche l’ombra.

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Per fortuna stanno invece all’ombra sti poveretti che scavano a mano le trincee per la posa delle condotte elettriche a bordo strada… ma non mi sembra che si stiano ammazzando di fatica.

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La pappatoia oggi si terrà a Mulbek, che segna il confine esatto tra il distretto di Leh e quello di Kargil, e quindi tra l’area buddista e quella mussulmana dello stato di Jammu e Kashmir, dove appunto si trova il Kashmir indiano.

Neanche a farlo apposta - proprio qui, sul confine – i missionari buddhisti, nell’ottavo secolo, avevano scavato nella roccia viva un Buddha di nove metri… giusto per far capire fin dove erano arrivati.

Probabilmente non erano riusciti a proseguire oltre. Vai a capire perché… fatto sta che questo è l’ultimo avamposto del pacioccone dorato.

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Da qui in avanti finisce la sagra delle bandierine da sagra. E di buddisti e di monaci non ne incontriamo più. Signore e signori siamo entrati ufficialmente in Kashmir.

Intendiamoci non è che sia un altro mondo (il paesaggio è su per giù quello), solo che cambiano la religione e anche i caratteri somatici della popolazione. Di tibetani in pratica non ne vediamo più: tutti fermi a Mulbek a far girare il tamburo della preghiera.

La presenza militare pure qui è massiccia, forse anche di più. In effetti i kashmiri sembrano essere teste piuttosto calde e per tenerli a bada bisogna essere in tanti.

Ma dico io, ci sono migliaia di soldati sparsi da per tutto. Che senso ha spostarli continuamente da una parte all’altra? Sarà che i camion Tata sono belli da guidare?

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Arriviamo infine a Kargil e ci sistemiamo in albergo sul fiume, con le moto parcheggiate al sicuro in rigoroso parallelismo.

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L’albergo sembra figo, ma in realtà dispone di acqua calda ad ore (in teoria) e ha una connessione wifi che funziona a pedali. Comunque pare che sia il migliore della città e vende pure clandestinamente la birra… ma a noi non interessa perché, come potete immaginare, siamo tutti astemi.

Il fiume che attraversa Kargil si chiama Suru ed è un affluente del grande Indo, nel quale si immette però in territorio Pakistano, qui vicinissimo.

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Infatti la cosiddetta “line control” (ovvero la linea di demarcazione militare che divide le zone del Kashmir controllate dall'India da quelle controllate dal Pakistan), sta ad appena nove chilometri da noi, ma la zona è rigorosamente off limits. Sulle creste sopra le nostre teste continua infatti dagli anni quaranta una guerra di posizione senza fine… e senza senso.

Il Kashmir, per chi non lo sapesse, non è conosciuto solo per le famose lane, ma anche per il suo triste e dimenticato conflitto.

La sovranità di questa regione è rivendicata sia dal Pakistan che dall’India, che ne controllano un pezzo ciascuno, mentre la Cina (e ti pareva che non ci fossero di mezzo anche i cinesi) rivendica un altro pezzo, e cioè la zona che attualmente controlla, e cioè quella nord orientale.

Tutto il casino è scoppiato subito dopo l’indipendenza dai Britannici, allorquando vennero costituiti i neo stati dell’India (a prevalenza induista) e del Pakistan (a maggioranza marcatamente islamica).

Il Kashmir, che stava nel mezzo, era governato all’epoca da un Maharaja induista, ma la popolazione, come detto, era quasi interamente mussulmana e quindi, potete immaginare, stra felice di essere governata da un infedele.

Il Maharaja scelse ovviamente di annettere tutto il Kashmir all’India, ma il Pakistan altrettanto ovviamente non riconobbe tale annessione (anche perché già occupava e considerava cosa propria un terzo del territorio).

A distanza di settant’anni i soldati indiani e pakistani restano a fronteggiarsi sulla line control che tuttora divide il Kashmir in due zone.

Tra i due litiganti il terzo però non gode. Infatti i Kashmiri non vogliono stare con nessuno dei due contendenti, ma vogliono l’autonomia… che è piuttosto un’utopia, perché qua nessuno è disposto a mollare.

E quindi si va avanti così: ogni tanto scoppiano casini, rivolte e bombe; ci si mettono pure terremoti e alluvioni… altro che lane pregiate.

Questo è il quadro generale della regione, ma noi troviamo Kargil vivace e tranquilla. I bambini tornano da scuola con i loro zainetti colorati, la via principale brulica di botteghe e negozi, le donne portano il velo e non il burka (anche se non si lasciano fotografare facilmente), gli uomini vestono alla talebana e stanno per strada a non fare una mazza.

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Certo, siamo guardati con curiosità, ma nulla di più. Bisogna tener conto che questa è zona di montagna, e non proprio dietro l’angolo, per cui di forestieri se ne vedono pochi in giro. Comunque l’atmosfera che si respira è tipicamente e decisamente islamica, tutta un’altra storia rispetto al Ladakh buddista.

Alberto trova un calzolaio di strada e riesce a farsi aggiustare gli stivali. Antonio cerca un bagno schiuma, ma qui si lavano con il sapone e basta. Io compro dei biscotti e li pago un centesimo e mezzo di euro.

Senza volerlo però abbiamo creato più di qualche turbamento. Paola, che è bionda con gli occhi azzurri (non è mica colpa sua), ha praticamente agitato tutto il paese. Ovunque andasse era radiografata dalla testa ai piedi… e per forza qui di bionde è pieno così!

Guardate per esempio la faccia pirloide del tizio seduto a sinistra.

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Lingue per terra e occhi strabici insomma. Ma si dai, abbiamo movimentato questo sperduto villaggio kashmiro e i cuori (e pure gli istinti) dei maschi autoctoni.

Al rientro in hotel, cena (purtroppo solo e rigorosamente indiana) e poi a nanna.

Ci giunge notizia che la strada che vorremo percorrere domani è franata, per cui il rientro in Ladakh si preannuncia incerto.

Restate sintonizzati…

Massimo 03-09-2017 21:09

GIORNO 6 - 10 AGOSTO 2017
Kargil – Leh (267 km in moto)

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E’ già ora di partire. L’idea era quella di cavalcare l’Hamboting La (4078 m) per raggiungere la valle dell’Indo e quindi risalirla fino a Khalsi, per poi rientrare a Leh per la strada già percorsa all’andata.

Ci viene però confermata la notizia che la strada, dopo il villaggio di Sanjak, è franata e che non è percorribile nemmeno in moto.

In Ladakh bisogna sempre avere un piano B, oppure saperlo trovare. Il nostro piano B non ha nome, però esiste: si tratta di una stretta valle che collega in direzione nord-sud Sanjak a Khangral. Nemmeno Donato ha mai percorso questo tratto, per cui partiamo con un po’ di incertezze, ma non abbiamo alternative.

La variante ci consentirà di attraversare l’Hamboting La e di percorrere la valle dell’Indo nel suo tratto più suggestivo, come programmato, ma ci costringerà a rifare (nell’altro senso) il Fotu La: poco male perché è bellissimo da guidare e lo rifacciamo volentieri. In ogni caso non c’è altra possibilità.

Il percorso sarà tuttavia più lungo di una trentina di chilometri inesplorati, per cui partiamo di buon mattino.

Kargil è stata solo un assaggio di Kashmir, una toccata e fuga che mi ha fatto venire la voglia di tornare, magari con un viaggio ad hoc, magari fino a Srinagar. Sognare per ora non costa nulla e quindi mi metto in marcia con la testa tra le nuvole.

L’Hamboting La è pochissimo frequentato, e non solo dai turisti stranieri, ma anche dagli autoctoni, perché praticamente porta in mezzo al nulla: la valle dell’Indo, in cui si scende dall’altra parte, è pochissimo abitata, in quanto il fiume, in quel tratto, è piuttosto incazzato e, ad ogni stagione, spazza via villaggi e strade; inoltre c’è poco spazio per le coltivazioni, per cui la vita deve essere un filino scomoda.

Di turisti non c’è nemmeno l’ombra, probabilmente a causa del timore reverenziale che incute il Kashmir. Insomma siamo anche oggi fuori dalle rotte classiche del Ladakh. E a me piace un sacco sta cosa…

Attacchiamo dunque l’Hamboting La e Kargil scompare poco dopo dietro le prime curve. La via di salita si arrampica sulla destra idrografica di un vallone, praticamente fino al passo. Il paesaggio, dopo qualche rado boschetto, si fa totalmente brullo (come sempre del resto) e qui pure disabitato.

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Gli unici e rari mezzi a motore sono quelli militari. Ci sono anche i soldatini, che però non riescono a mimetizzarsi nonostante le mimetiche.

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Per il resto incontriamo solo pastori, gruppetti di donne a bordo strada e qualcuno che vaga da solo, non si sa bene dove.

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La strada continua a salire costante; all’asfalto si alternano tratti sterrati, comunque facili. E i nostri trattori vanno che è una meraviglia.

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Alberto trova anche il tempo di fermarsi…

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… mentre il nostro pickup di supporto, un Mahindra guidato dal fido Mustafà, ci segue a distanza.

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Nella parte alta, in dirittura del passo, il paesaggio si fa quasi lunare. Non c’è anima viva.

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Però in cima ne troviamo due di anime: Khomeini e Khamenei, che vegliano sui passanti e che ci ricordano che questa è ancora area islamica. Va che fenomeni!

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Ma anche questi non sono da meno. Vorrei però avere la sua barba.

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Scendiamo, trotterellando senza pensieri, dall’altro versante in direzione est. Gli spazi sono sempre ampi e i panorami grandiosi.

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Più avanti la strada si fa spazio ripida tra le rocce che costituiscono lo sbarramento naturale della sottostante valle dell’Indo.

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E non potevano certo mancare i soliti fancazzari seduti a non fare una beata fava.

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A Batalik troviamo un primo check point. I nostri permessi sono a posto naturalmente e caliamo, ora ripidi, verso il fiume che serpeggia rabbioso nel suo canyon.

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Ci segue sempre a ruota Daitan a bordo del suo camioncino.

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Questo tratto della valle dell’Indo è molto suggestivo. Lo spazio è appena sufficiente per la strada e il fiume… infatti non c’è altro.

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La nostra carovana prosegue in fila indiana fino ad un altro check point in prossimità di un ponte, ma poco dopo siamo fermi.

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Tre povere donne sono intente a spostare sassi mentre gli uomini dietro le guardano. Non potevamo mica essere da meno! E così mandiamo le nostre donne a dare una mano, mentre noi, sempre per non essere da meno, le guardiamo senza muovere un dito. Così siamo pari con gli altri!

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Liete di poter servire… come direbbe l’uomo bicentenario. Va che soddisfatte!

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Sgomberata la strada proseguiamo lungo l’Indo fino all’incrocio di Sanjak.

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Facciamo pochi metri e… alt! E’ qui la frana insuperabile che ci avevano preannunciato. Facciamo dietrofront fino all’incrocio e ci immettiamo per l’ipotesi B. Altro check point, il terzo, che ci lascia passare (e meno male altrimenti ci toccava tornare indietro fino a Kargil).

Affrontiamo la valletta incognita. Qualche grappolo di case, un torrente agitato e nient’altro. A metà strada incontriamo però due bimbi con il nonno. La piccoletta, che deve essere bella tremenda, non parla, ma i suoi occhi neri parlano per lei. E guai a toglierle di mano il suo biscotto!

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Qualche curva e ci ritroviamo a Lamayuru con il suo monastero appollaiato che sorveglia il paese.

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Al margine dell'asfalto vedo un piccolo fagotto. Avvicinandomi in moto mi accorgo che è un bambino rannicchiato per terra, anzi seduto a gambe incrociate.

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Era completamente da solo, ai margini della strada. Avrà avuto sì e no quattro anni. Si era tolto una scarpa e la riempiva come se fosse un camion per trasportare la ghiaia che aveva lì intorno.

Non aveva altro, ma era tutto intento a giocare con la sua scarpa. Mi sembrava felice. Non mi sono fermato per fotografarlo, né per parlare con lui. Avevo paura di rompere la magia di quel momento. E tale è rimasta.

È il ricordo più intenso che porto con me da questo viaggio…

Donato percepisce che ho bisogno di stare da solo, lo sorpasso e lo distanzio. Mi lascia fare.

Guiderò per un’ora completamente solo fino quasi a Leh. Il sole sta tramontando, le luci sono radenti, il cielo è luminoso e limpido. Tutto si amplifica, si dilata. Mi sento bene, incredibilmente bene. E per un po’ colgo tutte le emozioni, esageratamente potenti, che ritrovo ogni volta che viaggio da solo.

Grazie Donato di aver compreso il momento.

Alla sera, rientrati in albergo e docciati, gironzoliamo per il paese semi deserto. Qualche negozio è ancora aperto non si sa bene per chi.

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Che ne dite? Stasera ci potrebbe stare un’altra pizza. Cerco la cucina, ma non trovo il pizzaiolo.

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E per forza! Vorrai mica che facciano la pizza in cucina! Hanno la pizzeria, mica sono improvvisati questi!

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Perplesso, attendo che mi arrivi…

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Domani si riposa tutto il giorno. Poi si ripartirà per la parte più impegnativa di questo viaggio…

Piero61 04-09-2017 13:26

Bellissimo, un vero romanzo da leggere tutto d'un fiato.

Aspetto la prossima puntata ;)

Massimo 05-09-2017 18:27

GIORNO 7 - 11 AGOSTO 2017
Leh – Leh (14 km in moto)

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Giornata, quella odierna, preposta all’ozio puro... e al bucato.

Non potendo ricorrere alla manovalanza femminile (ancora stanca per i sassi spostati) faccio da me.

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Non riuscendo poi a stare fermo senza fare una fava (cosa che invece agli autoctoni riesce benissimo), prendo la motoretta e vado a farmi un giro allo Tsomo Gompa, il monastero che vedo dalla finestra e che da un po’ di giorni sembra chiedermi cosa spetto ad andare a vederlo.

Vista la poca strada lascio il casco e la tuta da moto a prendere polvere e mi metto la maglia arancione tipo stradino.

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Il monastero si trova piantato proprio sul cocuzzolo del monte che sovrasta il paese e la vista da lassù non è niente male.

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La via per arrivarci è semplice: basta seguire le bandiere, appiccicate un po’ dappertutto.

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Dentro trovo il solito pacioccone che qui, ha qualche dito in meno sul piede sinistro.

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Di fronte vedo lo Shanti Stupa, stimolatore dei salti ripacificatori di qualche giorno fa.

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Faccio qualche altra foto, e rientro in albergo.

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Non trovo gli altri che sono in giro da questa mattina. Decido di provare a cercarli in paese, ma mi imbatto in distrazioni di varia natura:

a) cani stravaccati per strada (la natura fancazzara da queste parti è ormai cosa dimostrata)

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b) qualche ferramenta, ma di badili e secchi sono a posto.

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c) cappelli e pellicce, ma anche di questi ho l’armadio pieno

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d) monaci rap, ma non è il mio genere

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e) mucche in vena di confidenze

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f) frange variopinte di cui ignoro l’utilizzo

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Insomma, non mi serve niente, e men che meno ste mutande improbabili per ladakhi muscolosi, lampadati e palestrati (proprio me li vedo).

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Faccio altri due passi, ma dei miei compari non c’è traccia. Quindi torno di nuovo in albergo…

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… dove Roberta mi informa che in mattinata le moto sono state sottoposte ad “approfondito” check.

Vuoi mai che la mia abbia qualcosa! Andava che era una meraviglia!

Mi precipito dal noleggiatore e scopro che ho consumato il freno anteriore (porca malora ho fatto solo 500 km ed era nuovo) e di aver perso quattro raggi. Tutta roba superflua, tanto sta moto va comunque. Per scrupolo però mi affido alle abili mani dei baby meccanici che in un’ora mi rimettono a posto la carretta.

Domani sarà pronta per affrontare sua maestà il Kardung La. Staremo a vedere…

ettore61 06-09-2017 19:38

dai dai scrivi ostiiiii

Massimo 08-09-2017 20:11

GIORNO 8 - 12 AGOSTO 2017
Leh – Diskit (139 km in moto)

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Ebbene sì! E’ finalmente arrivato il giorno della conquista della strada più alta del mondo, sua “altezza” imperiale il Kardung La… o almeno così si legge sul cippo piantato al termine della salita.

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Un momento. Sua “altezza” un par di ciuffole. In realtà le cose non sembrano stare proprio in questi termini…

Ma andiamo con ordine, giusto per mettere ognuno al suo posto (e alla sua giusta altimetria).

Il segnale in cima al Kardung La dice 18.380 piedi (che corrispondono a 5.602 metri). Un team di ricercatori catalani nel 2006 è andato però a misurarlo - non con il metro (o il piedimetro) - ma con strumentazione GPS e altri ammennicoli complicatissimi), e lo ha riquotato a 5.359 metri.

Diciamo che gli indiani, o se la sono presa larga, o hanno voluto fare gli sboroni, o peggio avevano dei doppi decimetri della Barbie.

Il vicino Chang La, che sta sempre in Ladakh, è invece pacificamente quotato come dice il cartello sulla sua sommità: ovvero 17.586 piedi (che corrispondono a 5.360 metri).

Can! Per un metro il Kardung La è arrivato secondo!

Per cui mettiamocela via sta storia del passo percorribile con mezzi a motore più alto del mondo; ma nemmeno il Chang La (che attraverseremo domani) lo è, se è per quello.

Sta storia delle misure rilevate e non è ancora finita. Infatti il Kardung La retrocede al quinto posto (5.359 metri); il Chang La si posizione di strettissima misura al quarto (5.360 metri); al terzo posto troviamo il Suge La (5.430 metri) che sta in Tibet;al secondo posto il Semo La (5.566 metri) anch’esso in Tibet; al primo si piazza il Marsimik La con i suoi 5.582 metri, sempre in Ladakh.

La discussione è però tutt’altro che chiarita perché - da un lato – c’è chi dubita che the number one sia transitabile con mezzi a motore (ho però visto foto di gente sulla cima con la vespa) e - dall’altro - non si può escludere che vi siano altri passi ancora più alti nel Tibet, non ancora verificati.

Fatto sta che il Marsimik La, che sembrerebbe ad un tiro di schioppo da qui, probabilmente non è percorribile dagli stranieri, data la vicinanza al confine cinese, per cui il discorso ahimè non si pone nemmeno.

Insomma, a parte sta baraonda sul record, il Kardung La attira comunque orde di turisti e motociclisti che lo salgono, forse, anche per sbandierare poi al bar di aver compiuto un record. Contenti loro, contenti tutti, però ora sapete come non farvi infinocchiare.

Ciò premesso, la tappa di oggi ricalca quelle classiche dei tour organizzati in Ladakh: la mitica Manali – Leh finisce appunto a Leh, ma quasi tutti mettono il becco in Nubra Valley attraverso il Kardung La, per poi però tornare a Leh sul medesimo percorso.

Esistono tuttavia due alternative più impegnative e di grande soddisfazione: una di queste si chiama Wari La, ma la affronteremo domani, per cui abbiate pazienza.

Devo dare anche un’altra informazione. Per cavalcare il mitico passo non bastano i permessi (ci sono, infatti, due check point, uno sulla rampa sud e uno su quella nord), ma occorre anche noleggiare la moto necessariamente a Leh.

Si perché, una specie di associazione più o meno abusiva dei renter locali, ha piazzato un autonomo gabbiotto proprio all’inizio della strada e blocca tutti gli outsider. Se quindi noleggiate una moto ad esempio a Manali, fate in modo di passare da questo controllo entro le 5:30 del mattino, quando al posto di blocco in questione non c’è nessuno. Altrimenti vi fanno fare dietrofront… anche se volendo si potrebbe pure forzarlo (tanto mica sparano).

La via di salita parte asfaltata e ben sistemata fino al check point militare di South Pullu; quindi diventa sterrata fino in cima, rimane sterrata fino a North Pullu sulla rampa nord, per poi divenire di nuovo asfaltata.

Affrontiamo la salita a ritmo lento per adattarci all’altitudine: questo è il nostro primo cinquemila e già superata quota quattromila ci rendiamo conto che l’aria è più fiacca. Il gruppo procede davanti a me a 40 kmh, mentre io resto indietro a fare foto.

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Per raggiungerli apro il gas della bestia fino ai 70 kmh e salgo spedito. Alla prima sosta successiva però mi rendo conto di essere un tordo. Donato mi aveva avvisato dopotutto. Scendo dalla moto, mi si annebbia la vista e quasi stramazzo a terra.

Vi assicuro che lo sguardo perso nel vuoto è del tutto involontario.

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L’altitudine non ha gli stessi effetti per tutti, a me non deve però fare un buon effetto sicuramente (anche se gli ultimi giorni i sintomi diminuiranno sensibilmente, complice l’acclimatamento che volente o nolente su e giù per ste zone avviene per forza di cose).

Non sto a spiegarvi in dettaglio la faccenda ma sappiate che più si sale, più la pressione atmosferica scende: in pratica l’ossigeno disponibile per la respirazione a 5.000 metri è circa la metà di quello inspirabile a livello del mare. Fate un po’ voi…

Per cui già mettere la moto sul cavalletto centrale o fare dieci metri a piedi, a queste quote, può dare problemi, anche marcati, di affanno ed equilibrio. Ovviamente di saltare non se ne parla proprio!

Lezione imparata! Da quota 4.600 in su procedo diligentemente a 20 kmh e pian piano riprendo colore.

La strada è piuttosto trafficata, tra camion con i lustrini di lamiera…

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… e furgoncini per il trasporto dei medicinali, che però sono pieni di capre

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La vista sulla valle sottostante è bella spaziosa, e anche il nastro d’asfalto è ampio e tirato a lustro.

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Più avanti – come detto – il tracciato si fa sterrato, ma rimane comunque facile, tanto per la motoretta non fa differenza. A parte un guado un po’ ostico si guida senza preoccupazioni.

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Sul passo ci facciamo un the preparato nel baretto dei militari…

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… mentre il nostro driver Zundap riesce pure a fumarsi una sigaretta.

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Anche la discesa, che parte sterrata, è tranquilla e regala belle vedute sul vallone sottostante…

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… mentre il percorso disegna i suoi ghirigori tra le ghiaie silenziose.

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Ritroviamo l’erba a North Pullu (l’altro check point) dove Stefania, nonostante l’ammonimento impartitole dal nostro buddha astemio, decide di riprendersi sparandosi una grappa a canna.

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Io invece, che sono già imbriago di mio, mi autoimmortalo davanti al primo prato della giornata (la Barbie seduta a novanta in mezzo alla foto me la sono portata da casa e non è quella del doppio decimetro).

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A pranzo sto giro mi tengo leggero: riso in bianco… forse un po’ troppo leggero.

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Il ristorante e l’adiacente ipermercato…

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… sono gestiti da una simpatica bambina già avvezza al profumo dei soldi…

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… mentre il paesaggio attorno è una vera meraviglia.

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La discesa finisce nella Nubra Valley che corre su per giù parallela (ma più a nord) della Valle dell’Indo, a ridosso del confine cinese. Al termine della discesa troviamo scritto con il sangue su un sasso che la strada che vorremo fare domani “is closed”. Ce ne è sempre una, ma ci penseremo più tardi…

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Il fondo valle è una distesa di sabbia, una sorta di deserto d’altura con tanto di dune, che trovano la loro migliore espressione in prossimità del villaggio di Hundar.

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Come sia arrivata fin qui la sabbia non l’ho ben capito, fatto sta che ci sono dune vere con tanto di cammelli bigobbati.

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E Donato scopre di essere anche un tipo da spiaggia. La sabbia deve avergli dato alla testa.

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E non solo a lui, a dirla tutta.

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Sulla sabbia trovo anche delle mucche macrocefaliche piene di mosche che si credono cani da tartufo.

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E pure degli asini a cui deve piacere un sacco la sabbia da mangiare, visto che lì intorno non c’è altro.

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I bambini intorno girano in bicicletta e fanno il bagno nel fiume e il loro fracasso mi mette di buon umore.

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Paola prova a fotografarmi ma la frego sul tempo.

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Le lingue di sabbia circondano la strada e quando tira vento non deve essere facilissimo guidare da queste parti. La valle, sabbia compresa, è però davvero incantevole.

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E il pistone che la attraversa sembra tirato con il doppio decimetro (sicuramente quello con cui hanno misurato il Kardung La)

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Torniamo a Diskit per visitare il re dei paciocconi dorati, il più pacioccone di tutti, che fa Maitreya di nome e Buddha di cognome per 32 metri di altezza.

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Direi che un salto di coppia ora ci può stare.

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Però, con il dinoccolato che mi ritrovo tra le gambe, non è venuto un granché.

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Accanto al ciccio bomba canottiera gigante, c’è un monastero bianco sparo, che però non visitiamo.

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Cosa ci faccio con una bandiera ficcata in testa, solo il pacioccone lo sa.

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La giornata è ormai finita. Ci sistemiamo in albergo, molto carino anche se essenziale, con un bel giardino e terrazzi coperti. Fuori due bambini ci regalano i loro sorrisi a conclusione di questa giornata veramente radiosa.

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Verso sera il cielo però mette al brutto e inizia a piovigginare. La strada che vorremo fare domani sembra fattibile con le moto… e con buone braccia. Ci sarà da divertirsi, me lo sento.

Intanto sono uscite le stelle…

Buonanotte sognatori!

stino 09-09-2017 09:30

Fantastico !

Massimo 12-09-2017 20:32

GIORNO 9 - 13 AGOSTO 2017
Diskit - Spangmik (223 km in moto)

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La meta di oggi dista circa 100 km in linea d’aria e ci porterà sulle sponde del Pangong Tso, il lago più esteso della catena montuosa dell'Himalaya, che si trova nel “far est” del Ladakh alla quota di 4250 metri di altitudine, a cavallo del confine tra India e Cina.

Il lago è bello slanciato, anzi piuttosto magro, perché è lungo 134 km e largo appena 5. Due terzi della sua lunghezza sono in Tibet (che come tutti sanno rientra nei confini amministrativi della Cina) e, pur essendo salato, a queste altitudini d’inverno ghiaccia completamente.

Tra l’altro è anche “bello assai” come direbbero i bikers napoletani e come si può vedere.

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Insomma, tutt’altra cosa rispetto al Lago di Bracciano o al Lago di Garda.

Sebbene si trovi in tanta mona, la pozzanghera in questione è abbastanza frequentata dai turisti che bazzicano per il Ladakh, anche se va detto che i tour organizzati non la inseriscono di default nelle loro proposte. Diciamo che è meta per menti libere e predisposte perché non è comodissimo da raggiungere, anzi è proprio fuori mano.

Per arrivarci (e non farci mancare niente) avevamo intenzione di cavalcare in sequenza il Wari La e il Chang La, una bella doppietta di over cinquemila nello stesso giorno, così da arrivare a destinazione belli imbriaghi di curve e di marogne sterrate.

Ma… vi ricordate il sasso scritto con il sangue di ieri? Beh, quel sasso, anticipava una frana bella grossa e incerta, che ci ha costretto a mettere in opera un piano B e pure un piano C, un lusso da queste parti, dato che di solito non c’è molta scelta.

Provo a farvela semplice: per arrivare al Pangong Tso senza dover tornare indietro a Leh per la stessa strada di ieri dobbiamo per forza di cose arrivare alla frana nella Nubra Valley, poco dopo l’innesto della strada già percorsa del Kardung La. Oltre la frana in questione, ci sono due opzioni: il Wari La e il Chang La (ipotesi A) ovvero proseguire per la Valle del fiume Shyok fino a Durbuk, arrivando così oltre il Chang La (ipotesi B). Da lì in avanti la strada per il Pangong è comune.

L’ipotesi A è più lunga e impegnativa, dato che si tratta di scavalcare due passi belli alti e per di più in gran parte sterrati. L’ipotesi B invece si snoda per fondivalle piatti ed è più breve. Donato si ricordava che, nelle sue scorribande, quest’ultima ipotesi presentava però guadi impegnativi e profondi, ma ci viene riferito che ora sono stati costruiti dei ponti.

Poiché già sappiamo che, per ben che ci vada, il pick up di appoggio sicuramente non potrà passare la frana (e che quindi dovremmo guidare senza ferri e bagagli) optiamo per la soluzione più semplice e breve.

Vada quindi per l’ipotesi B. Qualora la frana non fosse superabile nemmeno con le moto, si torna indietro fino a Leh rifacendo il Kardung La. E per forza! Non ci sono altre strade. Sarà la nostra ipotesi C, ma non voglio nemmeno pensarci.

Il Wari La quindi ce lo mettiamo via definitivamente. Boccone amaro da mandar giù per me, ma la scelta, vista la situazione, è la più saggia e praticabile.

In ogni caso, tempi indefiniti e indefinibili: quindi sveglia alle cinque e motori accesi alle sei.

Partiamo a orecchie basse e in un’ora arriviamo al punto fatidico, l’ombelico di questa traversata. La strada finisce di netto in un torrente che si è portato via tutto: al posto dell’asfalto c’è il greto asciutto con sassi grandi anche come i meloni. Nessun veicolo a quattro ruote può passare, ma le moto forse sì. Il tratto in questione è lungo 350 metri.

Lo sguardo desolato e smarrito di Stefania, parla più di molte parole.

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Anche se non tutti sono così preoccupati, vero Alberto?

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Allora, calma e gesso! Mica siamo venuti qui a pettinar le bambole! Gambe in spalla e pedalare!

Le moto bisogna portarle a mano, o meglio a braccia, per il primo tratto…

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… quindi si guida nel greto asciutto del torrente per il secondo.

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Neanche a dirlo, sta roba è lavoro da uomini duri… come questi due bellimbusti

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Mentre le donne, si tolgono i tacchi a spillo e indossano gli scarponi da sherpa, occupandosi di trasportare l’acqua e i ferri di emergenza: sì perché dobbiamo proseguire da soli, mentre il pick up, guidato dal nostro fido Gollum, dovrà necessariamente percorrere la lunga ipotesi C.

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Alla fine della fiera non è poi stato tutto sto casino e in poco più di un’ora le nostre quattro carriole sono dall’altra parte, di nuovo sulla strada. Ci meritiamo delle uova, che Donato ci serve alla giusta temperatura corporea della gallina che le ha espulse. Buonissime!

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Ritroviamo quindi l’unico nastro d’asfalto che percorre la valle del fiume Shyok, un affluente del grande Indo.

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La valle è piana e livellata come un biliardo, una distesa di ghiaia accecante, che possiamo osservare anche dall’alto perché la strada guadagna un po’ di dislivello con un paio di curve.

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Poi di nuovo calma piatta. Non c’è anima viva intorno (e per forza, la strada più indietro è interrotta) e regna il silenzio più assoluto.

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Incontriamo solo due ciclisti, per i quali la frana (quando la raggiungeranno) comporterà ovviamente fatica zero, ma non li invidio: non sanno cosa si perdono a cavalcare questi muli di ferro.

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Sono da poco passate le nove del mattino e, visto che abbiamo tempo, ci sta un salto per scaricare la tensione accumulata durante il superamento della frana.

Purtroppo ha voluto cimentarsi nel gesto atletico anche l’orango di sinistra che avrebbe bisogno di ripetizioni di salto…

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Siamo tutti più rilassati e decidiamo di prendercela comoda visto che l’ipotesi B, che stiamo seguendo, è breve e facile.

C’è chi si mette in posa…

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… chi si specchia…

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… chi pascola tra i fiori…

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… chi fotografa le mosche…

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… e chi fa il deficiente.

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Donato ci richiama tosto all’ordine e la carovana riparte ordinata in fila indiana.

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Beh, c’è anche chi non obbedisce proprio sempre sempre… diciamola tutta.

Però, vuoi mettere poter fermare la moto in mezzo alla strada. Ma quando mi ricapita?

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E’ giunto il momento per il re dei minchioni, cioè questo qui…

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… di passare il testimone.

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Che sia finito in buone mani? … Io dico di sì.

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Però, va che contenti.

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Cazzeggiando arriviamo a Agham, dove sulla destra si stacca il bivio per il Wari La. La carovana non si ferma e, facendo finta di niente, prosegue diritta per l’ipotesi B, mentre mi assale un groppo in gola: arrivare fin qui, dopo tutte le incertezze che avevamo, e saltare il passo, beh… faccio un po’ fatica a digerirlo.

Possibile che nessuno dei paciocconi che abbiamo incontrato non possa fare qualcosa?

Neanche a farlo apposta, dopo pochi metri un tizio ci informa che l’ipotesi B è assolutamente intransitabile.

Mi si illuminano gli occhi e un sorriso con tutta la dentiera mi si stampa in faccia, perché so bene che l’unica alternativa, a questo punto, è l’ipotesi A, cioè la strada del programma originario di viaggio. E mi esce un Waci Wari Wari La…

Dietro front. Il passo ora è inevitabile. Mi sento in paradiso, anche se Donato non la pensa esattamente così perché sa bene che il tempo stringe e dobbiamo arrivare prima che faccia buio.

La strada inizia a salire subito, ma quel che doveva essere uno sterrato non banale, è in realtà un nastro di asfalto nuovo di pacca. Il pacioccone ha proprio esagerato sto giro.

Più avanti però la faccenda degenera progressivamente: l’asfalto è quello di sempre e, oltre, pure finisce per far posto allo sterrato, quello di sempre pure lui.

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Sarà per la solitudine assoluta, sarà perché ci tenevo un sacco a questo passo che non fa nessuno, sarà per quel che volete, ma sta di fatto che mi sento in un’altra dimensione. Felice come poche volte mi è capitato. E me la godo, come un bambino chiuso a chiave in una fabbrica di caramelle.

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La parte finale della salita è un inaspettato pascolo per gli yak. C’è un silenzio quasi surreale e manca completamente qualsiasi presenza umana, fatta eccezione per qualche pastore che controlla a distanza i suoi animali cornuti.


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Arriviamo così in cima al Waci Wari Wari La, che dall’alto dei suoi 5312 metri (mica noccioline) ci ricorda di volare bassi con salti, capriole e corsette.

Per cui mi limito a immortalare il momento. E che momento!

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Sento questo luogo magico, come se fosse tutto mio, un regalo sognato, desiderato e prezioso.

Il momento però finisce subito. Sì, perché dobbiamo ripartire alla svelta, siamo in ritardo sulla tabella di marcia e il tempo veramente stringe.

Si volta pagina: versante sud, anch’esso sterrato nella parte alta e asfaltato in quella bassa. Si parte quindi.

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Il tracciato disegna degli sghiribizzi…

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… per perdere poi ulteriore quota con tornanti che, dall’alto, segnano strisce parallele.

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Mi fermo e mi giro… per lanciare un’ultima occhiata al magico punto lassù, dove, per una serie concatenata di coincidenze, alla fine della fiera sono riuscito ad arrivare.

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Mi godo per un ultimo istante il silenzio e lo spazio e quindi risalgo in sella.

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Siamo ormai quasi arrivati in fondovalle. Compaiono le prime coltivazioni. La giostra è purtroppo finita.

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In realtà non è finita per niente, perché dobbiamo superare il Chang La, il secondo cinquemila della giornata e tra l’altro, il più alto di tutto il viaggio. Ora bisogna proprio pedalare, per cui niente foto (o quasi), tanto lo dovremo percorrere all’incontrario domani con più calma.

Sarà perché siamo stanchi, sarà per l’ansia da prestazione (quella di arrivare in tempo, subito a pensare male voi), ma il tratto sterrato non è proprio facilissimo e attacca quasi subito.

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Passiamo come schegge la sommità, a 5.360 metri, e ci spariamo nella discesa sul versante est, sempre sterrata e in qualche tratto non proprio agevole.

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Appena incontriamo l’asfalto un tizio in infradito ci ferma: stanno asfaltando.

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Questa sosta non ci voleva, ma c’è, quindi obbedienti spegniamo i reattori dei nostri bolidi.

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Si riparte, ora su fondo buono.

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Dallo specchietto tengo d’occhio il saltatore in erba…

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… mentre saluto gli indiani che qua usano alzare il pollice (ma non il gomito perché sono quasi tutti astemi, anzi facciamo tutti).

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Oltrepassiamo il villaggio di Durbuk (da dove saremmo dovuti arrivare con l’ipotesi B, fortunatamente e necessariamente accantonata) e infine arriviamo a Tangtse, importante crocevia e check point militare per il Pangong, dove un controllore rachitico, detto “il magro”, esamina in nostri permessi.

Via libera, si prosegue.

Ai margini della strada c’è sabbia e tira vento.

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Inoltre dobbiamo superare parecchi guadi su torrenti incazzosi e nervosi, perché a pomeriggio inoltrato i fiumi qui si ingrossano di brutto.

Io, che sono piuttosto impedito nell’arte guadatoria, non mi diverto affatto e in più di un’occasione ho temuto seriamente il peggio: ricordo un paio di guadi profondi e melmosi e uno malefico, su un tratto in salita, dove l’acqua non attraversava la strada ma la percorreva, come un fiume uscito dagli argini, contro il mio senso di marcia.

Comunque grazie al pacioccone, che evidentemente veglia su di me, riesco a non finirci dentro, ma non trovo il tempo di filmare né fotografare.

Guado dopo guado, arriviamo infine al Pangong Tso, il tanto desiderato lago, proprio con la luce giusta.

Tiro fuori il cavalletto e mi metto in posa come se fossi un esperto guadatore con anni e anni di esperienza alle spalle.

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Si aggiunge anche Alberto, che però quando vede l’acqua non capisce più una mazza. Ma si può, dico io?! Un uomo tutto d’un pezzo e guadista provetto…

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Dai! Facciamo qualche foto seria, degna del momento…

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Quasi seria, va.

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Il lago è però veramente bellissimo…

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… e soprattutto vicinissimo alla Cina (le montagne là in mezzo sono appunto Cina).

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Un ultimo tratto di una decina di chilometri ci separa da Spangmik, dove si trova il nostro resort. Beh, non esageriamo, si tratta di bussolotti di cartone con due letti dentro, ma dopo 13 ore filate di moto non possiamo desiderare di meglio, anche perché di meglio non c’è.

Sono ormai le sette di sera, il sole è sceso e le luci si accendono.

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Siamo tutti belli munti di fatica. Roberta non si sente bene e Antonio si infila subito sotto le coperte infreddolito e con i piedi ancora bagnati. Gli altri si dirigono in sala mensa per mettere sotto i denti qualcosa: oggi, del resto, abbiamo mangiato solo uova e frutta secca.

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Ma, un momento! E Gandalf, il nostro autista, dove è finito? Siamo preoccupati, ancora non è arrivato e non riusciamo a contattarlo. E’ già buio pesto e ancora non si vede.

Arriverà sfinito alle dieci e mezza passate, con un pick up diverso. Scopriamo che ha fatto un frontale con un camion Tata sul Kardung La, fortunatamente senza conseguenze fisiche, però ha dovuto farsi venire a prendere a 5000 metri, cambiare mezzo, trasbordare i bagagli, e farsi l’altro cinquemila.

Ho dimenticato di dirvi che gli indiani guidano in effetti da bestie. Cito, a tal riguardo, le profetiche ammonizioni di Donato “per guidare in India servono tre, fondamentali, cose: un buon clacson, tanta attenzione e altrettanta pazienza. Il codice della strada, così come lo conosciamo noi, non è che un oscuro tomo di carta, buono al massimo per la toilette, in caso di necessità. Quindi tutto, o quasi, è affidato al caso e alla gerarchia veicolare. La scala del potere parte dai camion, sostanzialmente i padroni della strada. Superano nelle curve cieche e sul dritto, anche se dall'altra parte arriva qualcuno, il quale dovrà “gentilmente” farsi da parte se vorrà evitare problemi: perché loro, raramente, si spostano. Stessi comportamenti, e “diritti”, per i conducenti di auto, furgoni o pulmini. Poi vengono i motociclisti, al penultimo posto della scala gerarchica indiana. Noi, insieme a ciclisti e pedoni, siamo indesiderati Paria della strada, un fastidioso sciame di insetti, scoppiettanti, che non meritano attenzione”.

Sfiga ha voluto che capitasse alla nostra jeep, però culo ha voluto che non capitasse a noi (che sarebbe stato sicuramente peggio).

Siamo tutti stanchi e andiamo a dormire dopo questa giornata lunga e faticosa, ma anche la più grandiosa di tutte.

Il Wari La adesso non è più solo un puntino sulla mappa… grazie pacioccone.

Massimo 15-09-2017 21:14

Ladakh 2017 - La strada verso il cielo 2 (FOTO e REPORT)
 
GIORNO 10 - 14 AGOSTO 2017
Spangmik – Tso Kar (252 km in moto)

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Nonostante la stanchezza, non sono riuscito a chiudere occhio, complice probabilmente l’altitudine a cui mi trovo: è la prima volta del resto che mi infilo sotto le coperte a 4250 metri.

Comunque sia è ora di alzarsi. Il cielo è coperto, Roberta sembra sentirsi leggermente meglio rispetto a ieri sera, mentre Antonio decide di lasciare la moto e di proseguire in jeep, come pure le altre signore, fatta eccezione per Federica che evidentemente è stata forgiata nella ghisa pura.

Facciamo quindi due gruppi: Donato, Alberto, Luca, Federica ed io proseguiremo in moto, mentre Antonio e le altre donne ci seguiranno in jeep, assieme a Daltanius il nostro fidato autista.

Rabbocchiamo i serbatoi con la tanica che abbiamo sempre dietro e partiamo, facendo a ritroso la strada di ieri.

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Dato che è mattina e i fiumi dormono, i guadi sono praticamente scomparsi: dove ieri avevo trovato difficoltà adesso trovo asciutto.

Sotto il cielo plumbeo incontriamo i prati e gli yak che pascolano indisturbati.

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Un torrentello ci accompagna disegnando le sue curve nell’erba.

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Ripassiamo dal check point di Tangtse, dove seduto da ieri c’è sempre “il magro”, e iniziamo a salire verso il Chang La.

Qui, la strada deve averla disegnata qualche ingegnere nostalgico di piste Polistil, o forse la stessa Polistil negli anni settanta.

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Ormai abbiamo perso di vista la nostra jeep, del resto il circuito di plastica è una tentazione troppo forte per farlo piano e quindi… beh ci si vede.

Attacchiamo il Chang La, che oggi, da riposati, ci sembra meno ostico di ieri.

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Adesso che abbiamo tempo possiamo farci una foto ricordo… a proposito Donato, hai mai pensato di inamidarti la barba?

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Ma dai! Guarda che organizzati. Sul passo i militari hanno anche un ambulatorio medico!

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Affrontiamo dunque la discesa dall’altro versante (quello ovest) e da lì proseguiamo, sempre verso ovest fino al crocevia di Karu, sulla Manali – Leh dove ci apparecchiamo e aspettiamo gli altri.

Il tempo passa e non si vedono ancora. E sì che siamo qui da almeno tre ore, troppe. Strano. Che sia successo qualcosa? Nessuno di noi si agita, però non comprendiamo tutto sto tempo, del resto non siamo andati forte. Forse il traffico, forse una foratura… Aspettiamo.

Finalmente arriva la jeep e scopriamo che Roberta è stata male, veramente male, anzi malissimo. La ritrovo immobile attaccata ad una bombola d’ossigeno. Sono tutti molto spaventati e ci raccontano i momenti di terrore trascorsi. Fortuna ha voluto che Antonio, Paola e Stefania siano stati con lei ed è grazie a loro che la situazione è stata gestita meglio che si poteva.

Non voglio entrare nei dettagli, ma lo spavento è stato grande e la situazione era seria, molto seria. Il peggio sembra però essere passato e le condizioni di Roberta adesso sono stazionarie e più gestibili.

Donato prende in mano la situazione e, da vero zen qual è, in pochi minuti organizza tutto e tutti: la jeep con il suo equipaggio, seguita da lui in moto, rientra di corsa a Leh, mentre Alberto, Luca, Federica ed io, proseguiamo senza jeep verso lo Tso Kar, come programmato. La jeep poi tornerà indietro e ci porterà i bagagli in serata.

Diamo tutti un abbraccio a Roberta e ci mettiamo in marcia da soli. Il gruppo ristretto è tutt’altro che spaesato, anzi è proprio gasato e affiatato; ci intendiamo solo con lo sguardo, abbiamo dopotutto gli stessi interessi e le medesime motivazioni, per cui ci sentiamo sicuri e tranquilli.

Prendiamo la Manali – Leh in direzione sud e, dopo un check point e il ponte sull’Indo, di dirigiamo verso il Taglang La (5328 metri).

La strada è perfettamente asfaltata e poco trafficata. E’ una goduria guidare e il tempo ha messo al bello.

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Procediamo molto distanziati, quasi in autonomia e senza fretta. Relax allo stato puro. Ci sentiamo bene con noi stessi e tra di noi. Insomma siamo una mini squadriglia perfetta.

Attacchiamo il versante nord del Taglang La: in pratica un pistone d’alta quota tirato a lucido, assolutamente irresistibile.

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Ed ecco qua l’allegra mini brigata sulla sommità del cocuzzolo. Va che contenti!

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In scioltezza scendiamo per il versante sud, fino alla deviazione per lo Tso Kar che si stacca sulla sinistra.

Una stradina stretta ci porta ora in un mondo di meraviglie. La luce è quella giusta che precede il tramonto, di quelle che ti fanno sentire in pace con l’universo mondo. Gli spazi si dilatano e scompare ogni forma di presenza umana.

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Grazie pacioccone! So che in tutto questo deve esserci anche il tuo zampino (o forse il tuo piede sinistro, quello con tre dita).

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Le ombre si allungano e gioco a fare Peter Pan.

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Improvvisamente mi attraversano la strada dei cavalli selvaggi, un po’ strani, perché hanno la criniera a spazzola come le zebre, ma non hanno le righe e sono più piccoli dei cavalli normali. Pascolano liberi in questo altopiano tutto l’anno perché qui la neve non supera mai i venti centimetri, nonostante l’altitudine, e quindi qualche filo d’erba, scavando con il muso, lo trovano anche d’inverno.

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Neanche a dirlo, noi abbiamo un cauboi (scritto proprio così) di nome Alberto che si getta all’inseguimento pensando di essere in Arizona.

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Ma secondo voi, sti equini, sono qua a farsi prendere da uno in moto, pure dinoccolato a piedi, che per di più non sa neanche saltare?

Evidentemente no… per cui, dai Albertozzz, torna indietro che ti sei divertito abbastanza per oggi.

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Il luogo è sterminato e incredibilmente fantastico. E questa luce magica vorremmo che non finisse mai.

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Però adesso dobbiamo sbrigarci, il sole sta tramontando e ci piacerebbe vedere il lago prima che cali completamente.

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Proseguiamo per l’altopiano nella solitudine più assoluta fino al nostro resort. Si, anche qui, resort è un parolone, perché si tratta dei soliti scatolotti di compensato, che però sono un lusso, dato che ci sono pure le tende con tanto di spifferi.

Ci fermiamo giusto un momento per dire che siamo arrivati e tiriamo diritto per lo Tso Kar, un lago salato d’altura, molto più piccolo del Pangong Tso, ma più alto di quota (4600 metri) e circondato da paludi e spiagge.

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Hai detto spiagge? Si, proprio spiagge, Alberto, hai capito bene, spiagge.

E chi lo vede più adesso! Il ragazzo ha preso la tangente e comincia a guidare ad minchiam tra i cespugli e la sabbia compatta, senza meta e senza senso…

Lo ritroveremo più avanti intento a parcheggiare la moto senza cavalletto, travestito da befana…

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E’ lui adesso il re dei minchiones: mi arrendo, mi ha superato, e lo guardo compiaciuto di aver lasciato il prestigioso titolo in buone mani.

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E ci sta pure un omaggio alla mia torpedo blu che mi ha portato fin qui senza perdere troppi pezzi.

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Manca solo una foto ricordo, che penso rimarrà nei nostri ricordi a lungo e che riassume l’essenza di questa incredibile giornata.

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Poi, per una strana legge gravitazionale, uno di noi subisce un involontario innalzamento dal suolo. Chi sarà mai?

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E’ ora di tornare. Il sole è ormai tramontato.

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Ritorniamo al vicino accampamento e ci sistemiamo nelle nostre suites.

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Imparo anche a farmi la doccia con tre litri d’acqua: finalmente comprendo l’utilizzo del secchio che è sempre presente nei bagni ladakhi.

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Docciati al risparmio, andiamo a cena e - sorpresa sorpresa - troviamo la pasta al pomodoro cinese. Non mi sembra vero! Che sia anche buona? Buonissima, altro che buona! Come avranno fatto a cuocerla giusta al dente a 4600 metri di altitudine, dove l’acqua bollirà si è no a 50 gradi, è affar loro, fatto sta che la mangiamo tutta, ma proprio tutta.

Siamo a tavola con un ornitologo indiano, il quale ci informa che la strada che vorremmo fare domani (ma che abbiamo promesso a Donato che non faremo) è in parte allagata dall’Indo: il grande fiume in più punti ha infatti rotto gli argini. Così ci togliamo la tentazione di disobbedire al capo… mantenendo fede alla parola data. E così sarà.

Le tende si illuminano di luce propria e il cielo si colora di un azzurro quasi surreale.

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La jeep ancora non è arrivata. Aspettiamo al caldo nel ristorante, perché la temperatura fuori (e dentro) le nostre camere è scesa di brutto.

Ma ecco due fari in lontananza: è lui, il nostro driver (che non so più come chiamare), arrivato sano e salvo sto giro, senza fare incidenti, assieme ad un suo compare. Ci informa che Roberta sta meglio e ci sentiamo tutti più sereni.

Fuori il cielo è un bombardamento di stelle.

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E sotto questa coperta a pois andiamo a dormire. Ci si vede domani, ragazzi…

ChArmGo 15-09-2017 23:20

ma grandissimi!!!

Rafagas 16-09-2017 09:06

Bellissimo questo racconto; stupende le foto!

Massimo 19-09-2017 20:34

GIORNO 11 - 15 AGOSTO 2017
Tso Kar – Leh (191 km in moto)

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Questa notte la temperatura è scesa a zero e nello scatolotto ci saranno stati si e no dieci gradi: morale della favola per me è andata in bianco per la seconda volta di fila.

La giornata è però limpidissima e siamo tutti belli carichi e pimpanti.

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Avevamo promesso a Donato che saremmo ritornati indietro per la stessa strada senza fare la valle dell’Indo e le promesse vanno mantenute, quindi la cosa è fuori discussione.

Tuttavia lì vicino - oltre lo Tso Kar, verso est - ci sta un passo neanche segnato sulle carte che si chiama Polongka La. Non è nemmeno altissimo (4880 metri) ed è una tentazione troppo forte per saltarla anche perché è tutto sterrato.

In ogni caso la promessa è salva perché il valico in questione si trova prima della valle dell’Indo.

Partiamo dunque per una toccata e fuga: saranno si è no 20 km e altrettanti al ritorno.

Lo sterro è facile e bello veloce. Guidiamo sempre distanziati, praticamente ognuno per i fatti suoi e con i suoi ritmi. Del resto è impossibile perdersi perché c’è una strada sola: questa.

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E’ chiaro che per Alberto le strade non sono fatte per guidarci sopra, tant’è vero che lui preferisce tribolare di fianco in mezzo ai cespugli. Però si diverte da matti.

Superiamo lo Tso Kar circondato dalle striature bianche delle sue spiagge salatissime...

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… e iniziamo a salire verso il passo.

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Poco prima di raggiungerlo troviamo dei pastori nomadi che piantano le loro tende per i due mesi estivi in cui le capre trovano da mangiare da queste parti. Su una yurta ci sta scritto “restaurant” mentre su un’altra “hotel”

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Chissà che comfort e che caldo di notte! Il livello non deve essere un granché a guardarla da fuori, però - diciamo - che in caso di emergenza è meglio di niente.

Il passo è poco evidente: si tratta più che altro di un dosso alla sommità di due altipiani che calano da parte a parte. Però ci sono le bandiere da sagra che a noi mettono di buon umore.

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Per cui uno scatto a me e uno alla truppa sono cosa sana e giusta.

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Ci sentiamo bene e siamo felici di essere qui. Anzi, il fatto di essere un mini gruppo, lontano dal gruppo completo e dalla sua guida carismatica, ci gasa il giusto: l’autonomia, nelle giuste dosi, non è poi così male.

Diciamo che si percepisce il feeling, l’intesa tra di noi, direi perfetta, che è cosa rara anche tra motociclisti navigati.

E’ ora di tornare. La jeep ci aspetta all’accampamento. Ripercorriamo dunque a ritroso la strada dell’andata, liberi e incantati da questo paesaggio che ci ha spalancato le porte stupendoci oltre ogni previsione.

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Mi fermo un istante e mi godo per l‘ultima volta questo scrigno di meraviglie che chissà mai quando potrò rivedere.

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Arrivati al campo base controlliamo per scrupolo le moto. Tutte a posto. Eccetto una. Chissà mai quale…

Ma dai! E’ quella di Alberto ovviamente. E’ riuscito a spaccare dieci denti della corona. Strano, ha uno stile di guida ineccepibile il ragazzo.

Non ci credete? Ecco qua la prova.

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Con tanto di soddisfazione del responsabile.

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Non avevo mai visto smontare una ruota con quattro ferri in croce e soprattutto togliere i cuscinetti a sassate. Si perché il martello non si trova, nemmeno sul tetto della jeep.

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E mentre i meccanici (con l’aiuto di Alberto) armeggiano sulla sua moto…

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… io me la godo seduto sulla mia.

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Tutto a posto. Si parte per Leh, d’ora in avanti senza soste. La strada tanto è quella di ieri: quindi la Manali – Leh con in mezzo il Taglang La.

Facciamo le corna che tutto vada bene.

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E tutto andrà bene in effetti, nonostante Carlo Azeglio, il nostro driver, guidi da vero animale. In pratica non riusciamo a stargli dietro. E non solo per la scarsa potenza delle nostre caffettiere, ma anche perché stargli incollati dietro vorrebbe dire smaltarsi sicuri.

Restituiamo le moto al noleggiatore e dispiace un po’ a tutti. In fondo ci siamo affezionati a questi obsolescenti mezzi a motore; si, perché ci hanno portato dappertutto e senza di loro, e dei loro difetti, non ce la saremmo goduta così quest’avventura. Facevano parte del contesto dopo tutto e il Ladakh senza Enfield non è il Ladakh. Insomma avremo nostalgia di sti ferri, anche se ci rosica ammetterlo.

Roberta si è rimessa completamente e siamo pronti per l’ultima cena, ovviamente a base di pizza, udite udite, cotta nel forno a legna.

Questa sarà l’ultima nostra notte in Ladakh e da domani tutto questo ci mancherà terribilmente.

Il mio viaggio però non è finito. Proseguirà, senza moto, e da solo…

Massimo 20-09-2017 18:38

GIORNO 12 - 16 AGOSTO 2017
Leh – Agra (zero km in moto)

Vi sento un po’ taciturni... comunque, visto che ci sono, proseguo e termino questo racconto.

E’ arrivato il giorno della partenza e mi sento un po’ svogliato. Non avrei nessuna voglia di lasciare questa terra meravigliosa che, in una manciata di giorni, mi ha coinvolto e stravolto, che mi è entrata dentro, da parte a parte, lasciando un segno che credo rimarrà per sempre.

Il Ladakh è un mondo a sé, con le sue montagne, i suoi spazi, il suo cielo e soprattutto la sua gente. E’ difficile arrivarci, ma ancor più difficile distaccarsi.

L’umore del gruppo è in sintonia con il mio. C’è chi parte con me e chi partirà domani. Un autista ci porta in aeroporto, dove i controlli di sicurezza, asfissianti e logoranti, iniziano già all’esterno.

L’aereo decolla e saluto queste montagne che abbiamo traversato in lungo e in largo in questi giorni densi di emozioni e anche di un po’ di fatica.

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Siamo arrivati a Delhi dopo poco più di un’ora di trasvolata himalayana. Ci abbracciamo tutti. Forte. Senza dire troppe parole. Non servono…

L’uscita dall’aeroporto di Delhi è molto più semplice dell’entrata. All’esterno trovo il mio autista che mi aspetta sorridente. Starò con lui due giorni pieni.

Partiamo per Agra immergendoci nel traffico caotico di Delhi. Saranno quattro ore di viaggio, che però voleranno perché Raj, così si chiama, è persona simpaticissima.

In pratica parliamo e ridiamo tutto il tempo, facendo a gara a chi la spara più grossa.

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Mi racconta che ha tre figli, tutti studenti e una moglie casalinga buddhista, mentre lui è induista. Il vestito che indossa ha otto anni e, per una giornata di lavoro, prende una miseria: appena 300 rupie (che sono meno di 5 euro) al lordo delle spese. Però è una persona solare che si accontenta del suo stile di vita, pur tra mille immaginabili difficoltà.

Arriviamo ad Agra che è quasi sera, giusto il tempo per vedere l’Itimad-Ud-Daulah, ossia la tomba del primo ministro del quarto imperatore Moghul, fatta costruire da sua figlia nel 1600.

Il monumento è comunemente conosciuto come Baby Taj o piccolo Taj Mahal per la somiglianza con il più celebre e più imponente mausoleo, sicuramente il più conosciuto dell’India.

Mentre fuori dai siti turistici, regna il tipico caos indiano, come si varca la porta d’ingresso si entra in un mondo a parte, fatto di silenzio, tranquillità e pace. E pure di pulizia, perché tutto splende ed è tirato a lucido.

L’edificio, circondato da un giardino su tre lati, si affaccia sul fiume ed è un capolavoro di cesellatura traforata nel marmo.

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Fuori sulla riva del fiume i bambini giocano…

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… mentre dentro una guardia un po’ svogliata controlla che i turisti si tolgano le scarpe per entrare.

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Raj mi porta in albergo. Un lusso esagerato, che però costa quattro franchi in croce. Come in tutti i grandi alberghi indiani i controlli di sicurezza sono simili a quelli degli aeroporti, ma ormai ci sono abituato.

Fuori fa un caldo insopportabile: il termometro segna 45 gradi e l’umidità supera l’80%. Faccio un bagno in piscina (calda come il… non posso dirlo) ed esco a cena.

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E’ tutto così diverso dal Ladakh...

Massimo 20-09-2017 18:52

GIORNO 13 - 17 AGOSTO 2017
Agra – Delhi (zero km in moto)

Oggi faccio il turista. E la giornata inizia presto. Sveglia alle 5:00 per vedere il Taj Mahal all’alba. Raj mi recupera una guida paffuta, che è una bella comodità perché se non altro tiene libero il campo da tutta quella pletora di gente che vuole venderti qualcosa, e sono tanti, credetemi, e poco gestibili.

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Entro e resto senza parole. Dopo tutto – e non a caso – quest’opera architettonica è da sempre considerata una delle più notevoli bellezze dell'architettura musulmana in India, è inoltre patrimonio dell’umanità e rientra pure nella ristretta cerchia delle nuove sette meraviglie del mondo.

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Credo che non serva aggiungere altro: la storia (più o meno vera) che vuole attribuire la costruzione dell’edificio ad un gesto d’amore la conoscono tutti.

Fatto sta che è di una bellezza disarmante, sembra quasi una sagoma di carta all’orizzonte. E’ tutto costruito in marmo makrana, molto più duro del nostro marmo di Carrara e soprattutto traslucido, nel senso che fa passare la luce.

L’opera poi è tutta traforata di fino. Veramente bellissima.

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Uno dei minareti mi sembra però storto. Mi dicono che sono tutti e quattro così ma io ne ho beccato uno solo.

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La gente ci pascola a fianco, ma si può anche entrare senza però fotografare.

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Tutt’intorno i giardini sono curatissimi…

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… mentre fuori le scimmie rompono gli zebedei.

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Torniamo in albergo belli pimpanti e da lì ci spostiamo all’Agra Fort, altro patrimonio dell’Unesco.

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Il forte, realizzato nel tipico stile Moghul, è in gran parte realizzato in arenaria rossa, ma all’interno, è stato usato anche del marmo makrana, forse quello avanzato dal Taj.

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La mia guida, che è musulmana, ma porta occhiali da marines, mi spiega tutto per filo e per segno e io ascolto da bravo scolaro.

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Da un terrazzo si vede pure il Taj Mahal, che si affaccia proprio sul fiume. Deve aver rosicato non poco l’imperatore che lo ha fatto costruire e che è stato rinchiuso qui niente po’ po’ di meno che da suo figlio, che lo ha spodestato. Bella riconoscenza veramente!

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Il forte è davvero grande ed è strutturato in una serie infinità di cortili, tutti diversi tra loro.

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E c’è pure un fotografo professionista.

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Saluto (e pago) la mia guida (na’ miseria) e proseguo per Fatehpur Sikri, che sta a una quarantina di chilometri a ovest di Agra.

Il traffico variopinto dell’India di pianura è bello da guardare seduti comodamente in macchina; non mi ci infilerei molto volentieri in moto, perché è imprevedibile e incredibilmente incasinato.

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Per strada, anche fermo, si trova ogni tipo di trabiccolo munito di ruote.

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Il viaggio però prosegue allegramente… e pure il torneo in corso per vincere il trofeo del re della minchiata.

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Qua deve averla sparata più grossa lui mi sa.

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Fatehpur Sikri è il più tipico esempio di città murata dell’epoca Moghul, con aree private e pubbliche ben delimitate e porte di accesso imponenti. L'architettura è un misto di stile indù ed islamico, e la città è famosa per essere stata abbandonata poco dopo la sua edificazione… per mancanza d’acqua.

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Belli tordi mi vien da dire. Non potevano pensarci prima?

Il sito è curatissimo, pulitissimo e veramente interessante, e pure questo è patrimonio dell’Umanità. Non avevo mai visto nulla di simile.

Gironzolo per i cortili da solo. In giro c’è pochissima gente: per forza sono le due del pomeriggio e fa veramente un caldo bestia, bestia proprio.

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Trovo riparo all’ombra dei colonnati…

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… assieme a un cane

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E’ ora di tornare a Delhi, per cui ci mettiamo in marcia.

Arriveremo con il buio dopo aver attraversato il traffico della capitale nell’ora di punta. Uno non può credere al casino che c’è per strada se non ci finisce dentro: praticamente ci si trova già fermi a 70 km dalla città e si procede a passo d’uomo se va bene. Ovviamente regna l’anarchia più assoluta e neanche in moto si riesce a svicolare. Napoli in confronto è un deserto.

Il mio albergo è nel quartiere di Paraganji, nella città vecchia per intendersi, che tutti definiscono come quello più tipico e autenticamente indiano.

Sarà pur vero, però a me non è piaciuto poi così tanto. E’ invece decadente, molto decadente, e sporco, e per strada si vede solo miseria, quella vera, che non mi esalta per nulla.

Questo è il panorama sotto il mio albergo, giusto per darvi un’idea.

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Molte persone, anche bambini purtroppo, sono senza casa, in pratica vivono e dormono per strada.

Esco per cercare un tuktuk che mi porti al ristorante. Appena metto piede in strada vengo subito avvicinato da tizi di vario genere, anche poco raccomandabili e comunque miserabili. Mi si dice di stare attento perché nei vicoli poco illuminati, di notte, si può anche rischiare la rapina. Bene: questa è l’india autentica, quella vera, quella esaltata dai turisti occidentali in vena di avventure. A me non piace affatto e vorrei che fosse diversa. Opinione personale naturalmente.

Ceno e rientro in albergo. Di girare per strada di notte per immergermi nell’atmosfera non ci penso nemmeno…

Massimo 20-09-2017 19:11

Ladakh 2017 - La strada verso il cielo 2 (FOTO e REPORT)
 
GIORNO 14 - 18 AGOSTO 2017

Delhi – Verona (zero km in moto)



Questa è la mia ultima giornata di viaggio. Il mio volo parte alle 2:45 di domani mattina e decido di dedicare tutto il tempo a disposizione alla visita di Delhi.



Alle nove trovo puntuale sotto l’albergo un altro autista, un’altra macchina e un’altra guida, che sto giro parla italiano. Non è quella che avrei voluto (perché non disponibile) e un po’ scarsa a dire il vero, però ascolta Laura Pausini e Mal dei Primitives (sa persino “pensiero d’amore” a memoria) e questo gli fa guadagnare subito un sacco di punti.



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Iniziamo dalla città vecchia, con la moschea di Jama Masjid.



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Poi prendiamo un ciclo risciò e entriamo a Chandni Chowk, uno dei più antichi e affollati mercati di Delhi, un dedalo di stradette talmente strette che si fatica talvolta a passare. Ai lati negozi di ogni genere di cianfrusaglie, pure le galline… e di botteghe che servono il cosiddetto street food indiano.



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A proposito di street food, dopo che ho visto lavare le pentole nelle canalette in strada, l’idea di assaggiare qualcosa qui non mi sfiora lontanamente e un pensiero tenero e compassionevole va a tutti quelli che su Tripadvisor esaltano e consigliano l’esperienza come qualcosa di imperdibile.



Sono un po’ perplesso…



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… anzi molto perplesso.



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Soprattutto per il tranvai di cavi elettrici che penzolano sopra la mia testa. Pensare di metterli sotto terra, no? Vero? Troppo difficile come idea.



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Chandni Chowk, è un mercato. Qui arriva gente da fuori Delhi a vendere le proprie mercanzie, e altre mercanzie vengono portate con carretti in periferia. E’ tutto un via vai di persone che trasporta ogni genere di merce.



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Certo che forse, con l’occhio dell’occidentale, questo mercato, e il suo casino, potrebbe avere una migliore collocazione in periferia, anziché in pieno centro storico...



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… con buona pace per le mucche



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Ma sono indiani: troppo difficile da pensare, e ancor di più da realizzare. Quindi Chandni Chowk resta dove è e ci resterà probabilmente per sempre,



Mi sposto adesso al Raj Ghat, il memoriale di Gandhi dove risposano le sue ceneri, dopo la cremazione avvenuta nel 1948, che si trova nella città nuova, New Delhi appunto.



Sebbene non ci sia molto da vedere a parte una lapide di pietra nera, il luogo è molto importante per gli indiani e in particolare per gli indù. Entro in religioso silenzio sotto un caldo soffocante.



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Proseguiamo sempre per New Delhi e arriviamo all’India Gate, un arco di trionfo a memoria degli 82.000 soldati dell'esercito dell'India Britannica caduti tra il 1914 e il 1921 nella prima guerra mondiale e nella terza guerra anglo-afgana.



Intorno c’è un marasma di gente e a me non pare un granché, ma visto che sono arrivato fin qui mi faccio una foto con i soldatini tutti in tiro.



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E’ ora di pranzo e col fischio che mangio ancora gli intrugli indiani. Adesso che qui c’è un’ampia scelta, mi fiondo in un fast food dove preparano degli hamburger artigianali, ovviamente di pollo. Il manzo è fuori discussione.



Fuori dalla porta vedo disteso un bambino, proprio disteso a pancia in giù. Per entrare ed uscire bisogna scavalcarlo. Se ne sta lì fermo senza chiedere niente. E nessuno fa niente. Come se non ci fosse, è completamente ignorato. Sono sconvolto. Mi spiegano che è il figlio di una ragazza madre che lo ha abbandonato appena nato per evitare il disonore e potersi risposare e farsi una vita. E come lui ce ne sono migliaia. Vivono per strada, senza affetti e senza nessuno che si prenda cura di loro.



Posso capire le tradizioni, la cultura la religione, tutto quello che volete, ma ciò è contro la natura umana delle cose ed assolutamente inaccettabile. E ancora adesso non riesco a mandarla giù.



Salgo in macchina con le balle in giostra per quello che ho appena visto e mi dirigo al Gurudwara Bangla Sahib, il principale tempio Sikh di Delhi.



Il sikhismo è una religione monoteista, basata sull'insegnamento di dieci guru che vissero in India tra il 1400 e il 1600. I Sikh non bevono e non fumano, né possono tagliarsi i capelli (che tengono tutti avvolti sotto i loro turbanti) in più girano con un pugnale curvo. In india si vedono di frequente, e anche nell’esercito ce ne sono: al posto del basco indossano il turbante verde o mimetico.



Mi lavo i piedi, mi metto un fazzoletto in testa arancione fastidio (ma se avessi voluto mi davano pure il turbante) ed entro.



Provo a fotografare ma si incavolano subito. Infatti non tollerano foto in posa, ma solo di persone che stanno pregando o facendo dell’altro. Riesco comunque a convincere il baffo qui sotto a farsi immortalare guardando l’obiettivo.



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Fuori il tempio è tutto bianco con le cupole dorate e di fronte ci sta una grande piscina lurida piena di pesci.



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L’interno è un filino kitch a mio gusto. Diciamo che con la vernice dorata ci sono andati giù pesanti. Su dei monitor tipo karaoke scorrono i testi delle canzoni che stanno suonando dal vivo questi tre tizi qui. Bella musica, diciamo sul genere Casadei.



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In un tabernacolo sta seduto un tizio turbantato che ogni tanto agita un piumino bianco sopra un libro gigantesco e coperto, deve trattarsi del sacro testo dei guru, ma non capisco l’utilità di spolverarlo in continuazione.



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Ogni giorno i Sikh offrono cibo a chiunque ne abbia bisogno: in una gigantesca mensa trovano infatti posto migliaia di persone, che mangiano aggratis, senza distinzione di credo religioso. Davvero un bell’esempio. Complimenti.



Sempre nella città nuova si trova la Tomba di Humayun, un altro mausoleo, dove risposa l’omonimo imperatore Moghul. L’edificio è del 1500: quando da noi spopolava il rinascimento, da queste parti costruivano mausolei a manetta.



L’impianto è simile agli altri: giardini e fabbricato in mezzo. Tutto molto curato e molto bello devo dire, e tra l’altro è pure questo patrimonio dell’umanità. A mio avviso è il più bel edificio religioso di Delhi, dopo quello che vi sto per raccontare



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Sempre nella città nuova ma defilato dall’altra parte del fiume si trova un’autentica meraviglia l’Akshardham Temple, che metterei a pari merito con il mitico Taj Mahal.



Si tratta di un enorme tempio indù, uno dei più grandi del mondo. L’area su cui è collocato raggiunge ben 40 ettari. E’ poco frequentato dai turisti occidentali perché è fuori dalle rotte classiche e decisamente fuori mano, ma anche perché è molto recente (la sua costruzione è iniziata nel 2005). Tuttavia, chi l’ha detto che è bello solo l’antico?



L’ingresso è gratuito, ma chiunque è sottoposto a severi controlli di sicurezza, pure corporali. Si entra solo con il portafoglio e i documenti. Nient’altro. Scordarsi il telefono, la macchina fotografica e ogni altro oggetto, borse comprese. Inoltre si cammina scalzi (e il pavimento al sole scotta).



Fuori un parcheggio da stadio accoglie migliaia di auto, mentre dentro sono diffuse dappertutto musiche indù cantate da bambini. Ci si sente subito benissimo. Attraverso dei giardini curatissimi, racchiusi in cortili con chiostri colonnati si arriva allo spazio centrale dove sorge il tempio, costruito in pietra rosa e marmo bianco.



Il basamento è un bassorilievo di centinaia di elefanti (che mi sa sono sacri) e racconta episodi della vita del guru. All’interno, la sala principale contiene delle statue dorate in una cascata di luce e pietre preziose. Resto strabiliato.



Poiché è impossibile fotografare, vi faccio vedere alcune foto reperite in rete, giusto per darvi l’idea di questa meraviglia assoluta.



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Se vi capita di passare da queste parti, non perdetelo.



La giornata volge al termine e mi organizzo per la cena. Davvero non reggo più il cibo indiano e decido di concedermi un lusso. Ho letto di una pizzeria stellata annessa a un ristorante di pari rango, dove il cuoco è calabrese. Si trova in un albergo da millemila stelle non molto distante. Cosa vuoi mai che costi una pizza! Basta che sia buona almeno.



Vi risparmio il livello dell’hotel, vi dico solo che al cesso c’è un tizio messo apposta lì per aprirti l’acqua del lavandino e un altro per porgerti l’asciugamano. A parte ste sceneggiate, la pizza è buonissima, italiana vera, con ingredienti rigorosamente made in Italy (a parte la mozzarella di bufala che hanno insegnato a farla fare ad un agricoltore locale per evidenti ragioni di trasporto). Esco soddisfatto dopo aver fatto una chiacchierata con lo chef, ben felice di parlare italiano ogni tanto. Il conto non mi ha bloccato la digestione. Meglio così.



E’ già buio. Saluto la mia guida e l’autista mi porta in aeroporto che sono le dieci e mezza di sera. Delhi è ormai là fuori e ancora più in là c’è il Ladakh. Questo viaggio è giunto al termine. Alle 2:45 mi imbarco e domani mattina sarò a casa…

elikantropo 20-09-2017 19:18

Molto bello, peccato sia finito.

Massimo 20-09-2017 19:23

Ladakh 2017 - La strada verso il cielo 2 (FOTO e REPORT)
 
CONCLUSIONI



L’India è veramente un mondo a parte. Lo si percepisce anche solo nell’architettura, e quindi da semplice turista. I monumenti, i palazzi e soprattutto gli indiani sono così diversi e lontani da noi. Chi è curioso non resterà deluso anche se certe situazioni sono spiazzanti.



Il Ladakh è un mondo ancora più a parte, terra di confine, estrema e magnifica. I luoghi lì sono di una bellezza travolgente, ma soprattutto è la sua gente, con gli occhi sottili e sempre sorridenti, che spiazza per la sua autentica semplicità e il suo modo di vivere strettamente connesso con la natura che la ospita.



Farebbe bene un po’ a tutti cambiare, anche se per poco, stile di vita. Si capiscono molte cose, credetemi. Un bambino che gioca con una scarpa, potrebbe insegnare qualcosa anche ai nostri figli sempre alla ricerca dell’ultimo videogame. Inoltre in Ladakh - forse ho scordato di dirvelo - i telefoni occidentali non funzionano e farsi una scheda indiana (ci ho provato) è un’impresa praticamente impossibile. Non avete però idea di come ci si sente bene senza cellulare e se non ci fosse nemmeno internet (quel che c’è va ad una velocità asfissiante) sarebbe ancora meglio.



Quanto al viaggio di gruppo (è stata la mia prima volta) debbo dire che è stata una scelta fortunata e azzeccata. La presenza di Donato, mai invadente e sempre competente, ci ha permesso di godere il mondo attorno con quella serenità e sicurezza che da soli non sarebbe stata possibile. Certo l’amplificazione emozionale (positiva e negativa) non è paragonabile, ma ogni tanto è anche giusto godersela.



Gli altri partecipanti hanno certamente vissuto questa esperienza ciascuno con motivazioni e aspettative diverse, tuttavia l’incanto per questi luoghi, comune a tutti, ha creato quella magica e irripetibile sintonia che ha fatto di questo viaggio un’esperienza davvero unica.



Ognuno ha dato agli altri la parte migliore di sé, o almeno quella è arrivata. Ognuno è stato un tassello prezioso e unico, come il Ladakh.



Se devo fare un bilancio, il luogo che più ho desiderato è il Wari La, perché fuori dalle rotte classiche, isolatissimo e sperduto, mentre quello che più mi ha affascinato è stato senza dubbio lo Tso Kar, complice anche la luce del mattino e della sera che rende tutto più fantastico.



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E allo Tso Kar tornerei anche domani.



E domani, sempre se potessi, mi farei una Enfield, a cui mi sono proprio affezionato.



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Per pura coincidenza nei giorni scorsi è stata presentata in India una nuova colorazione Stealth Black: tutta nera opaca. Infatuazione a prima vista. Per me è bellissima.



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Mi conosco e, quando mi capitano queste infatuazioni, prima o poi… beh avete capito, rischio di averla in garage, per cui tengo le dita incrociate.



Datemi retta, se avete l’occasione, fate un salto in Ladakh…



* * *



Ebbene signori, il fotoromanzo (di 527 fotografie) è finito. Ho provato a raccontarvelo, anche nei toni, come se fossimo seduti davanti ad una birra. Spero vi sia piaciuto e di non avervi annoiato. Quindi tolgo il disturbo e vi saluto, anche a nome dei miei compagni.



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Ops... devo aver sbagliato qualcosa.



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Mi sa che ho sbagliato ancora…



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Ah eccoli. Questi sono giusti.



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In fondo in Ladakh, con tutte queste meraviglie, siamo tornati un po’ tutti bambini…



Buona strada a chi sta per partire e alla prossima.


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